
IMAGOECONOMICA
L’avvento della società industriale e moderna ha prodotto una profonda cesura tra la sfera della produzione e quella della “riproduzione”, estromettendo la cura dai luoghi di lavoro, ovvero rendendola invisibile. Icona letteraria di tale invisibilità è Cosette, protagonista dei Miserabili, figlia di Fantine, a sua volta figura paradigmatica di tante madri costrette a scegliere tra lavoro e “vita”, talvolta al prezzo di compromessi laceranti: «Non potendo portare sua figlia con sé, poiché non sarebbe mai stata assunta se si fosse venuto a sapere che ella era una ragazza madre, la lasciò in custodia ai Thénardier, straziata dal dolore per tale distacco».
Ed effettivamente, una volta venutosi a sapere, Fantine perderà il lavoro e sarà costretta a scendere fino agli abissi della disperazione, per poi morire senza la consolazione di rivedere la figlia: la sua storia, chiosa V. Hugo, è quella di una società che compra una schiava, che baratta un’anima per un pezzo di pane. Ma icone di questa invisibilità furono anche, in Paesi – come la Svizzera – inebriati dal miracolo economico, i figli dei gastarbeiter, i “lavoratori ospiti” giunti dall’Italia e da altre nazioni del Sud Europa: migliaia di bambini vissuti per anni da clandestini, nascosti in casa con la consegna di non fare rumore e non avvicinarsi alle finestre per non rischiare di essere deportati.
Vicende consegnate alla storia, ma che evocano una tensione ancora non risolta tra occupazione per il mercato e impegni familiari, tra lavoro e cura, tra lavoro e vita. Lo denuncia il dato, ormai noto, delle molte madri – più o meno una su cinque, vale a dire decine di migliaia ogni anno – che si dimettono alla nascita di un figlio e di quelle, ancor più numerose, che si destreggiano come equilibriste tra richieste di presenza, e di “eccellenza”, sul fronte professionale e su quello familiare. E lo denuncia l’invisibilità della paternità nei luoghi di lavoro che, fino a tempi recenti, ha costretto tanti padri a scontrarsi con culture aziendali e prassi organizzative che li discriminavano nella fruizione dei dispositivi per la conciliazione. E invisibili – o, al contrario, “iper-visibili” – sono ancora oggi i bambini e ragazzi con disabilità, se è vero che uno su due dei loro genitori hanno sperimentato (secondo una ricerca di Fondazione Paideia e Bva Doxa) una discriminazione al lavoro per tale ragione.
Sembra però che le cose stiano cambiando: basta aprire i siti istituzionali delle grandi aziende per rendersi conto di come il codice della cura abbia fatto irruzione nel mondo d’impresa, preannunciando un nuovo modello di pensare al lavoro e al suo rapporto con la famiglia e la società; un modello capace di instillare nei luoghi della produzione i linguaggi dell’empatia e della sollecitudine, promettere la condivisione del lavoro retribuito e di quello familiare, conferire piena cittadinanza sociale al lavoro informale di cura.
Sintomaticamente ribattezzata con formule quali people management, la gestione delle risorse umane attinge oggi in misura copiosa al lessico della cura, parla della necessità di mettersi in ascolto delle persone, di prestare attenzione ai loro bisogni, di offrire sostegno specie nelle fasi esistenziali più critiche, accompagnare le transizioni che costellano le carriere professionali, valorizzare la reciprocità tra generi e generazioni, garantire che tutti siano accolti e rispettati all’interno della “famiglia” aziendale. Riconoscendo il valore sociale della genitorialità, le imprese fanno a gara nell’esibire la loro parental policy, sostengono le neo-madri al rientro in azienda, incoraggiano l’utilizzo del congedo per i padri, annoverano il numero di nati tra i dipendenti tra i traguardi del bilancio di sostenibilità. Implicate in un’inedita competizione per attrarre nuovo personale, prevedono orari flessibili, smart working, settimane “corte”. Sollecitate dai dipendenti impegnati nella cura dei genitori anziani, lanciano iniziative a favore dei care givers e offrono loro consulenza psicologica e bonus per l’acquisto di prestazioni assistenziali. Talvolta si spingono oltre, prevedendo iniziative dedicate a chi si trova a vivere esperienze particolarmente sfidanti, come una malattia grave propria o di un familiare: quanta strada sembra essere stata percorsa da quando, rientrando in azienda dopo un’assenza prolungata, capitava di non ritrovare la propria scrivania! Addirittura, si interrogano su come identificare e premiare le competenze apprese proprio grazie all’impegno profuso nella cura dei familiari, riconoscendone la coerenza con asset strategici dell’impresa contemporanea; competenze quali la capacità di gestire situazioni complesse, il problem solving, la resilienza, la capacità di leggere i bisogni.
Siamo dunque entrati in una nuova era, nella quale ciò che ha costituito storicamente causa di penalizzazione – quando non addirittura di esclusione – diviene motivo di valorizzazione? Dato l’impatto, anche culturale, generato dalle scelte delle imprese socialmente responsabili, possiamo considerare imminente l’affermazione di una “società della cura” che ricolmi quella cesura che ha così profondamente segnato la nostra società? Ciò che sta accadendo nel mondo aziendale va considerato con interesse, poiché in atto vi è il disoccultamento del tema della cura e la sua identificazione con la condizione femminile. Per di più, l’esperienza dimostra come, più che un costo, il “prendersi cura” degli uomini e delle donne al lavoro e dei loro bisogni è un investimento che produce risultati positivi sui livelli di produttività, la performance d’impresa, la reputazione aziendale. Ciò premesso, va osservato come tali evoluzioni rischiano però di accentuare le diseguaglianze, condannando ancora una volta all’invisibilità una folta schiera di lavoratori e lavoratrici.
Paradossalmente, non ci si prende cura proprio di coloro che assicurano cura, lavoratori essenziali sui quali si scaricano molte delle tensioni, economiche e logistiche, dei sistemi di welfare societario e familiare. È recente la mobilitazione dei dipendenti della grande distribuzione, costretti anche nel tempo della festa a orari di lavoro invasivi sulla vita familiare e la “cura” delle relazioni. Del resto, in Italia come in molti Paesi, un operaio metalmeccanico (con tutto il rispetto dovuto al suo lavoro) guadagna di più di tanti lavoratori della cura (dagli infermieri agli educatori) impegnati in funzioni che richiedono istruzione, responsabilità, dedizione, orari di lavoro atipici. L’assistenza domiciliare agli anziani è in buona misura garantita da donne immigrate per le quali il diritto alla conciliazione semplicemente non esiste, spesso perfino geograficamente separate dai loro affetti.
La pulizia di uffici, ospedali, università e luoghi di loisir è affidata a un esercito di lavoratori invisibili e spesso sottopagati. Quando non guadagnano così poco da collocarsi al di sotto della soglia di contribuzione fiscale (circostanza tutt’altro che rara), questi lavoratori concorrono a finanziare non solo il welfare pubblico, ma gli stessi sistemi di welfare aziendale (che, com’è noto, godono di importanti misure di defiscalizzazione) di cui si avvantaggiano altri lavoratori più fortunati. Migliorare le loro condizioni di lavoro e retributive e favorirne l’inclusione nelle pratiche attraverso le quali le aziende si prendono cura dei propri dipendenti – attraverso soluzioni che allarghino le maglie del welfare aziendale al territorio e ai lavoratori che, pur non facendone formalmente parte, lavorano per l’azienda mediante sistemi di subappalto – è un passaggio fondamentale per garantire l’eticità delle evoluzioni cui stiamo assistendo. Un passaggio senza il quale potrebbe ancora capitare, come ai tempi di Fantine e Cosette, di dover vendere l’anima per un pezzo di pane.