sabato 28 gennaio 2017
In chiese, conventi e parrocchie un'oasi di speranza e aiuto immediato sotto le bombe che non smettevano di cadere. Oggi molti sono distrutti e tanti fedeli sono fuggiti
Ad Aleppo la forza dei cristiani: due terzi fuggiti ma ora più uniti
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Fuori è pieno di guardie armate che pattugliano nel buio. Dentro la sala è fredda. Ma per un paio d’ore gli spiriti sono più lievi e i sorrisi più frequenti. Krikor Bedros XX Ghaboyan, dal 2015 patriarca di Cilicia degli Armeni, nativo di Aleppo ma insediato a Beirut, non era ancora riuscito a tornare nella città natale sconvolta da quattro anni di battaglia. Ora ce l’ha fatta e per celebrare ha voluto incontrare tutti gli esponenti delle Chiese cristiane di Aleppo, tra i quali sei vescovi cattolici, tre ortodossi e i rappresentanti di due Chiese protestanti. Non è un’occasione solo formale, però. Si tratta anche di riconoscere, e tutti i presenti lo fanno, che la guerra ha cambiato, se non le menti, almeno certi usi e costumi.

Le Chiese cristiane si sono strette l’una all’altra, partecipi di un comune destino e di una sola preoccupazione, quella per la gente in pericolo. E il loro atteggiamento è stato notato e apprezzato. Dal gran muftì di Aleppo, Mahmud Akkam, ai fedeli musulmani qualunque che spesso, in questi anni, hanno trovato in chiese, parrocchie e conventi un’oasi di speranza e aiuto immediato.

La domanda che ora tutti si fanno, in questa Aleppo dove il mormorio dei discorsi di pace fatica a superare il frastuono dei combattimenti ancora in corso, è semplice e drammatica insieme: durerà? Questo stato d’animo sopravvivrà alle difficoltà oggettive, ai rancori, ai rimescolamenti che questa guerra brutale ha portato con sé? Com’è già successo in Iraq, i primi a essere interpellati dalla sfida sono proprio i cristiani. Molti se ne sono andati. Ancora pochi sono quelli che, sfollati in città più sicure, stanno tornando. È presto per fare un bilancio ma il quadro ha tinte fosche.

Si parla di due terzi dei cristiani fuggiti lontano da qui. Monsignor Antoine Audo, gesuita, vescovo caldeo cattolico di Aleppo, aleppino per nascita e discendente di una famiglia irachena che ha dato alla Chiesa caldea illustrissimi esponenti, sintetizza così: «Prima della guerra, Aleppo era una città ricca, dove non mancava nulla. Ora i ricchi se ne sono andati, la classe media è diventata povera e i poveri sono diventati miserabili». E poi i giovani scappati per non andare al fronte, i professionisti emigrati per ritrovare il benessere perduto, i tecnici che non hanno più potuto lavorare.

Come i suoi compagni di fede in tutto il Medio Oriente, monsignor Audo non teme la sparizione dei cristiani di Siria ma «la riduzione a una comunità troppo piccola e debole per esercitare una qualche influenza. Per dare un senso alla nostra presenza dobbiamo poter disporre di parrocchie, scuole, istituti. E mi creda, se noi siamo qui e contiamo qualcosa, facciamo un grande servizio sia all’islam sia all’Occidente. All’islam perché possiamo fargli apprezzare i valori positivi della modernità. All’Occidente perché, senza questa nostra mediazione, avrà sempre problemi a trovare una giusta relazione con l’islam».

Anche monsignor George Abu Khazen, francescano, amministratore apostolico di Aleppo dei latini, sottolinea la piccola ma importante breccia che certi valori, normali nella cultura cristiana ma non in quella musulmana, complice l’impatto sconvolgente della guerra civile, hanno aperto nella società siriana. «Per la prima volta – ricorda – abbiamo sentito il gran muftì della Siria, Ahmad Badreddine Hassoun, parlare di Stato laico e di distribuzione dei poteri alle autorità locali».

E Badreddine è l’uomo che nel 2012 ha pubblicamente perdonati i terroristi, già catturati, che avevano ammazzato suo figlio Sariah, una feroce ritorsione per le posizioni lealiste e filo-Assad del padre. Questi sono i principi e le attese. Ma nei quartieri e sulle strade che cosa registra il sismografo della speranza? La brutalità di questo conflitto senza quartiere ha precipitato Aleppo in un esperimento sociale con pochi uguali. I cristiani, indeboliti dalla diaspora e delusi dalla modesta solidarietà raccolta in un Occidente che avrebbe voluto vederli schierati contro il governo di Damasco e non ha nemmeno provato a intendere le loro ragioni, hanno comunque saputo dialogare con tutti, ma oggi sono alla prova di una realtà tutta nuova. La fuga davanti ai ribelli e ai jihadisti di quattro anni fa, e oggi lo spostamento massiccio a Ovest della popolazione che abitava nei quartieri Est ridotti in macerie, sta cambiando la fisionomia dei loro quartieri.


Vivere in un quartiere cristiano, per un cristiano, voleva dire godere di un ambiente conosciuto, protetto da abitudini, costumi e anche riti comuni. Un modo per sentirsi più sicuri, anche in una città dove convivevano 23 gruppi etnico-religiosi diversi. Ora le cose stanno cambiando e molti musulmani si stanno trasferendo, o stanno arrivando, in quei quartieri. Diffidenza e disponibilità s’incrociano, ma questo, per Aleppo, è comunque un clima da dopoguerra in cui tutti sono ancora traumatizzati.

Che succederà se e quando le cose torneranno alla normalità, magari anche nel pregiudizio e nell’invidia? Come sempre il bisogno rema contro. Il primo ministro Imad Khamis è arrivato ad Aleppo insieme con sei ministri e ha incontrato gli esponenti delle Chiesa cristiane. A loro ha detto chiaramente che la priorità è la ricostruzione delle strutture produttive, per dare lavoro alla gente e rimettere in piedi la città. Alle chiese, scuole, mense, orfanotrofi, ospedali e case per anziani distrutte da missili e bombe si penserà dopo, appena possibile.

Comprensibile ma... quando? Si capisce, dunque, la preoccupazione di monsignor Audo: niente strutture, comunità più debole. E viceversa. Ma anche i musulmani hanno problemi non da poco. Per quanto sia convinzione comune che la guerra sia stata anche e soprattutto il frutto di ingerenze esterne tese a distruggere la Siria, nessuno può negare che da anni siriani uccidono altri siriani, in un fiume di violenza che ancora non è arginato. Questo divide gli animi e via via spacca vecchie amicizie, rapporti di colleganza o vicinato, persino le famiglie. Ad Aleppo, poi, ci sono quattro anni di separazione forzata da rimontare.

Come avranno vissuto coloro che erano rimasti a Est? Che cosa avranno dovuto fare per sopravvivere nei quartieri dominati da ribelli e jihadisti? Chi sono, in realtà, queste centinaia di migliaia di persone che, con la vittoria dell’esercito regolare e dei russi, ora devono essere assistite o integrate nel tessuto urbano e sociale, anch’esso lacerato, di Aleppo Ovest?


Suona tutto molto ingeneroso ma anche inevitabile. Basma è un’infermiera. Ha un fratello nell’esercito e un altro fratello bloccato a Deir Ezzor, città della Siria da quattro anni assediata dall’Isis. «Nel mio palazzo – racconta – è venuta a vivere una famiglia uscita da Aleppo Est. Dicono di aver sofferto molto, di essere ora aiutati dai parenti dell’Ovest. Il padre sostiene di aver avuto un negozio di souvenir non lontano dalla Cittadella. Però fanno tante domande: che cosa fate, che cosa succedeva qui da voi... Non mi fido, ho troppa paura. E se questi hanno ancor simpatia per i ribelli? Se denunciano mio fratello ai jihadisti di Deir Ezzor? O vanno a dire in giro che mio fratello fa i soldato?». Sono sentimenti diffusi, che solo la pace e il tempo potranno stemperare. Il problema è che la pace non c’è ancora e il tempo non basta mai. Per ricostruire la Siria bisognerà ricostruire gli animi.

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