mercoledì 1 settembre 2010
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Con il suo «discorso alla Nazione» pronunciato stanotte il presidente Obama ha mantenuto la sua promessa, quella di porre fine a una guerra che non è mai stata la sua ma ha ereditato da Bush. Da oggi in Iraq non ci sono più truppe di combattimento americane, anche se sotto la bandiera a stelle e strisce rimangono 50mila soldati con il compito di fornire assistenza e addestramento all’esercito e alla polizia locali. Il leader della Casa Bianca ha parlato del ritiro militare statunitense come di una «pietra miliare», ma ha evitato i toni trionfalistici del suo predecessore Bush che nel maggio del 2003 aveva gridato «Missione compiuta!».Gli americani tirano un respiro di sollievo dopo aver riconosciuto che si è trattato di una guerra sbagliata, iniziata sulla base di motivazioni menzognere (le famose armi di distruzione di massa che sarebbero state in possesso del raìs di Baghdad) e trascinatasi per sette lunghi anni tra terribili distruzioni e montagne di cadaveri (150 mila morti tra gli iracheni e 5 mila tra i soldati statunitensi). Obama ha preferito guardare avanti e nel suo discorso ha insistito sulle nuove opportunità che si aprono adesso agli Stati Uniti, a cominciare dal rafforzamento della missione militare in Afghanistan, dove la guerriglia talebana è sempre più aggressiva, e dalla disponibilità di maggiori fondi (la guerra in Iraq è costata ai contribuenti americani la cifra stratosferica di 700 miliardi di dollari) al fine di sostenere un’economia nazionale che resta molto debole.Il presidente Nobel per la pace rilancia le ambizioni della super-potenza mondiale sperando in questo modo di risollevare gli indici di popolarità caduti al punto più basso. Obama guarda allo scacchiere medio-orientale che domani, dopo l’annuncio della fine dell’impegno militare statunitense in Iraq, vivrà un altro appuntamento decisivo a Washington, con l’avvio dei colloqui di pace tra israeliani e palestinesi. Ma non nasconde le sue preoccupazioni in vista della scadenza di novembre, con la prevista disfatta dei democratici nelle elezioni di medio termine.La ripresa del dialogo tra Netanyahu e Abu Mazen, così come il ritiro delle truppe combattenti americane da Baghdad, dovrebbe servire a ridare smalto internazionale a una presidenza giudicata deludente sul piano interno. È però forte il rischio di un clamoroso boomerang, come già ieri notava il "Washington Post". Il nodo iracheno non è stato sciolto e anzi rischia d’aggrovigliarsi ancora di più. Il premier al-Maliki esulta perché «l’Iraq è diventato un Paese sovrano e indipendente» ma sul terreno sono ripresi gli attentati terroristici con decine di morti, crescono i dubbi sulla capacità delle nuove forze di sicurezza locali di mantenere l’ordine, a Baghdad dopo le elezioni di primavera non c’è ancora un governo e si teme un massiccio ritorno alla violenza tra sciiti e sunniti, tra arabi e curdi.Aleggia lo spettro di una nuova e devastante guerra civile la cui prima vittima non potrà che essere, ancora una volta, la minoranza cristiana irachena. Ed anche i negoziati tra Israele e Autorità palestinese fanno temere una falsa partenza per l’aggravarsi della tensione nei Territori occupati, dove ieri sono stati uccisi quattro coloni israeliani. Nelle prossime settimane Obama si gioca tutto, il suo futuro politico e quello del Medio Oriente. Il ritiro dall’Iraq ha il suggestivo nome di "Alba nuova". Ne ha bisogno anche l’appannato leader degli Stati Uniti d’America.
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