venerdì 4 febbraio 2011
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Lo seguivano affascinati, lo amavano. Ma ogni volta che quell’uomo parlava della sua passione e della sua morte, «non comprendevano, si rifiutavano, si opponevano a quelle parole». Benedetto XVI parla dei discepoli di Cristo, duemila anni fa, ma parla in realtà di noi, nel messaggio per la Giornata mondiale del malato. Di noi, che pure immersi in questo tempo rumoroso e distratto crediamo in Dio, come nuotando contro la corrente. Di noi, che ci sforziamo di essere cristiani. E tuttavia c’è una prova in cui vacilliamo. È il momento del dolore: della malattia che piomba improvvisa in una casa, della vecchiaia che consuma e apparentemente annichilisce un padre o una madre. Cristiani, certo; però il dolore, però la morte ci lasciano spesso ammutoliti e come senza ragioni. Ragioni, a giustificare la nostra speranza. Riusciamo a trovarne nell’ordinaria vita quotidiana, e anche nella fatica; ma di fronte a certo dolore, subiamo come un’eclissi della speranza. «La sofferenza – dice il Papa – rimane sempre carica di mistero, difficile da accettare e da portare». La sofferenza, la croce. È il figlio che muore in una notte, assurdamente; o l’agonia dell’uomo che ti è accanto da tutta la vita - quel suo respiro sempre più faticoso. Questo dolore ci ammutolisce. Cerchiamo, per quanto è possibile, di sfuggirlo; di non vedere, o di pianificare rapide morti “dignitose”. (Perfino nell’ansia di bandire dai luoghi pubblici il crocifisso sembra di leggere un desiderio di rimozione: perché dovremmo avere l’immagine di un uomo torturato davanti agli occhi? Quella sofferenza rappresenta proprio ciò che vogliamo dimenticare).Benedetto XVI invece ha ancora nel cuore, dice, il momento in cui a Torino ha potuto fermarsi davanti alla Sindone, davanti a quel volto, icona di tutti i dolori, le violenze, di tutto il nostro male. E chi era in duomo quel giorno ricorda il lungo silenzio del Papa, solo, assorto. Davanti a quella che chiama «icona del sabato santo»: al volto di Cristo massacrato. Possibile che non abbia, il Papa, la stessa nostra angoscia davanti al dolore; che a lui non manchi, come a tanti di noi, di fronte alla sofferenza il fiato?Il fatto è che tra quel volto, nel duomo di Torino, e l’altro, del vecchio pontefice cresciuto dentro le tragedie del Novecento, stava, silenziosa e sovrana una certezza: Cristo è morto, ma è risorto. È sceso negli inferi, ma ne è tornato: «Per le sue piaghe siamo stati guariti». L’icona della morte di Cristo è anche icona della sua vittoria; su una morte che, da quel giorno, non è più la stessa.E il Papa parlando ai malati oggi torna alla Sindone. A quella croce che, dice, «fa paura, perché sembra la negazione della vita». (Il frettoloso angosciato silenzio con cui usciamo da una visita a una casa di riposo; o la ribellione aspra che sentiamo addosso, davanti a un bambino inguaribile). Niente di nuovo, in fondo: da secoli la Chiesa indica nella croce, nel mistero della sofferenza offerta a Cristo, la spes unica. E da altrettanto tempo immemorabile noi cerchiamo in ogni modo di evitare quella ferita, quella frattura, quella piaga. E lavoriamo, e parliamo, e facciamo cose numerose e anche lodevoli, sempre come cercando di navigare al largo da quella croce, sul Golgota. Fanno assai più di noi – hai pensato nelle stanze della Casa della Divina provvidenza a Torino, visitata dal Papa a maggio – fanno assai più di noi questi malati handicappati o dementi, nella economia misteriosa della salvezza e del dolore. Inermi, ai piedi della croce; semplicemente, lì. Come intuì Edith Stein, docente di filosofia, allieva di Husserl, il giorno che disse a se stessa che ogni parola era ormai inutile, e occorreva semplicemente stare ai piedi della croce. Quando dal Carmelo la portarono ad Auschwitz, seppe di essere stata presa in parola. La croce in realtà sola speranza, in quella oscurità da sabato santo. E nelle nostre private oscurità; di malati, di sani, e di quelli che fan finta di essere sani; e cercano di distrarsi, e guardano altrove.
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