Madri e figli in cella e tortura: andiamo avanti non indietro
martedì 28 marzo 2023

Detenute madri, figli incarcerati con loro e reato di tortura. Sono argomenti venuti in primo piano in questi giorni a seguito di parole e di iniziative di esponenti di prima fila dell’attuale maggioranza parlamentare e di governo: rivelatrici, le une e le altre, in ambo i casi, di una pericolosa tendenza ad alterare in peggio il già sempre precario rapporto tra severità e umanità nell’amministrazione della giustizia. Sul primo problema è difficile dissentire dalla puntuale analisi critica di Laura Liberto, pubblicata domenica 26 marzo su queste stesse pagine. Semmai si può sottolineare ulteriormente che è questo un test doppiamente significativo per verificare che cosa la legge intende fare, in generale, della giustizia penale: se uno strumento – checché se ne dica – semplicisticamente e ciecamente repressivo, o se un qualcosa che, attraverso percorsi non sempre facili, sappia appunto mostrare un volto umano, pur senza con ciò favorire a nessuno l’acquisizione di indebite impunità, e che s’impegni a dare un senso reale e non retorico alla finalità “rieducativa” prospettata dalla nostra Costituzione come obiettivo essenziale per l’intero sistema penale.

Ma perché “doppiamente” significativo? Perché qui, se la soluzione è sempre e soltanto quella detentiva, sono due le persone a subirla; e, almeno una, del tutto innocente. E parimenti diabolica, d’altronde, è l’alternativa che si configura, se in luogo della detenzione per entrambe le persone le si costringe a un innaturale separazione allontanando il bambino dalla madre, che resta in prigione. Nessuno può volere che la maternità sia un lasciapassare per commettere, e soprattutto per reiterare, dei reati, che non sempre, se è concesso di ribaltare un’espressione spesso usata (e anche abusata) sono “di poco conto”; o, quantomeno, non lo sono quando le vittime appartengono a loro volta, per ragioni economiche o d’altro tipo, a fasce deboli della società.

Ma una cosa è il potenziare una rete di strumenti, imperniata su strutture come le “case famiglia” dotandole di risorse e soprattutto di personale adeguato e adeguatamente formato, e anche assicurando i necessari controlli sulle ospiti nel tempo che trascorrono all’esterno; e altra cosa è il cercar di tacitare preoccupazioni e perplessità più o meno diffuse nell’opinione pubblica con un’unica, ossessiva risposta – “più carcere” – magari accompagnata da slogan che con grossolane generalizzazioni vellicano tentazioni razzistiche più o meno sottotraccia (le «borseggiatrici rom»…).

Discorso diverso, ma, al fondo, nemmeno troppo, quello sulle iniziative volte a “sterilizzare”, se non a cancellare del tutto e definitivamente, il reato di tortura. Innegabile il ritorno ad argomenti già massicciamente profusi per tentar d’impedire che come specifico delitto esso venisse finalmente introdotto in Italia coerentemente con impegni assunti anche a livello internazionale. Lo è stato solo di recente – occorre ricordare – e con notevoli limitazioni prudenziali, che comunque rendono pretestuosi gli argomenti con i quali si sollecita, pure qui con semplicistica alterazione di prospettive, un consenso alle operazioni riduttive e di fatto abolitive; come se la legge attuale ponesse davvero ostacolo a legittime operazioni di polizia o davvero privasse della necessaria tutela il personale penitenziario di fronte a violenze e minacce di reclusi riottosi.

Ciò che essa contrasta sono i gravissimi maltrattamenti, operati da agenti tra mura protette e, quel che è peggio, in certi casi avallati dai loro superiori. Pure a questo proposito si avvertono echi di parole sconcertanti: promesse di “star sempre dalla parte” di ufficiali e agenti, offrendo il sostegno di una specie di presunzione di giustificazione “a prescindere”. Sarebbe gravissimo il volerle tradurre in norme che suonassero come una censura alle autorità giudiziarie per accertamenti rigorosamente condotti su episodi che continuano a essere denunciati con dovizia di allarmanti particolari e come un dietrofront nella fissazione di doverosi limiti all’uso della forza da parte di chi può esercitarla nei confronti di persone soggette al suo controllo: e, ciò, anche quando può sorgere un pur comprensibile impulso immediato alla ritorsione, da comprendere ma da non incoraggiare a tradursi in pratica.

No: si può provare disagio nel dirlo e nello scriverlo, pensando ai sacrifici e al sangue che ha comportato e comporta, per la stragrande maggioranza di uomini e donne in divisa, l’adempimento di un servizio essenziale per la collettività; ma, se la disumanità non può mai essere approvata, tantomeno la si può giustificare o minimizzare quando a praticarla – con violazione, altresì, di uno dei cardini fondamentali dello Stato di diritto – siano coloro cui è affidata la tutela della legalità. Né la si può retrocedere benevolmente a forma, sia pur estrema, di severità, magari concedendo che, quando questa vada un po’ oltre le righe, sia da considerare alla stregua di un’aggravante tra le tante...

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