Ma i magistrati devono augurarsi anche il giudizio degli avvocati
mercoledì 28 luglio 2021

L’ipotesi referendaria già in Parlamento come emendamento alla proposta Cartabia «Epensino i magistrati che i migliori e più coscienti giudici della loro capacità, della loro laboriosità, della loro educazione, della loro rettitudine, saranno pur sempre gli avvocati, che li possono seguire, talora inavvertitamente, in tutte le loro manifestazioni, meditate e istintive, essendo queste ultime anche meglio indicative ». Era il 1956 quando Domenico Riccardo Peretti Griva, giudice del vecchio Piemonte ormai in pensione, scriveva queste parole, rivolgendosi a colleghi più giovani di lui, culturalmente cresciuti nel clima corporativo del ventennio, che guardavano con brontolona supponenza verso l’avvocatura, intimamente convinti della «superiorità della propria intelligenza e della propria coltura giuridica ». Sono trascorsi sessantacinque anni, sono molto cambiate le culture e la provenienza sociale dei magistrati di oggi, ma non ne è cambiata la diffidenza verso qualunque giudizio, sulla loro professionalità, esterno alla corporazione.

Al contrario, tale diffidenza sembra essersi irrigidita, a seguito di un arroccamento che da quarant’anni ha ormai abituato due generazioni di magistrati a un clima di cittadella assediata, che forse è servito per difendere la propria indipendenza ma non ha consentito di tirare la testa fuori dalle mura circondate e di fare qualche passo avanti. Questo spiega la diffusa (per fortuna, non unanime) contrarietà dei magistrati alla proposta, oggetto di uno dei referendum sulla giustizia promosso dai radicali e appoggiato dalla Lega, ma anche di un emendamento alla proposta Cartabia in discussione in Parlamento, di riconoscere ai membri laici (avvocati e professori universitari) già presenti nei consigli giudiziari il diritto di voto anche sulle deliberazioni che riguardano la valutazione professionale dei magistrati.

Sino a oggi, infatti, tali membri 'laici' possono votare soltanto su questioni di natura organizzativa. L’estensione proposta immetterebbe dunque pienamente avvocati e professori nel cosiddetto 'autogoverno locale' della magistratura, redendolo un po’ meno asfittico e autoreferenziale. È una proposta minima e nient’affatto nuova. La presenza a pieno titolo di 'laici' (non solo avvocati ma anche membri eletti dai Consigli provinciali o regionali) è una vecchia proposta della sinistra. Che fu formalizzata la prima volta in un progetto di legge del 1965 (primo firmatario Vittorio Martuscelli, magistrato eletto alla Camera nelle fila del Psi); e poi ripreso da proposte di Magistratura democratica e, nel 1980, dal professore Vittorio Grevi.

Ad un certo punto, questa proposta viene abbandonata e sempre più spesso osteggiata come un rischio per l’indipendenza dei magistrati. Perché, si dice, è pericoloso affidare la valutazione di professionalità di un magistrato a un avvocato a cui magari il giorno prima quel magistrato ha dato torto in un processo. È un’obiezione che prova troppo. Non solo perché gli avvocati nei consigli giudiziari sono, comunque, una minoranza. E dunque, se uno di loro portasse in quel consesso un atteggiamento di inimicizia verso un singolo magistrato, sarebbe facilmente battuto.

Ma anche perché questo rischio esiste, in misura uguale, per i pubblici ministeri che, eletti in un consiglio giudiziario, da sempre esprimono voti e pareri sui giudici dello stesso distretto. Perché non dovrebbe esistere il rischio che un pm in un consiglio giudiziario possa esprimere un parere negativo sul giudice che in un processo importante non ha accolto il suo impianto accusatorio? Siamo sinceri: chi non vede questo rischio e parla invece soltanto del pericolo all’indipendenza di cui gli avvocati sarebbero portatori pensa che giudici e pubblici ministeri non siano capaci (a differenza degli avvocati) di queste misere ripicche in quanto i magistrati sono moralmente superiori. Ancora una volta, come denunciava Calamandrei, certi magistrati rischiano di farsi accecare da «una specie di albagia professionale, la quale si rifiuta di credere che possano esservi avvocati pronti a servir la giustizia per solo amore di essa e non per cupidigia di guadagno ».

A questi magistrati bisognerebbe ricordare l’invettiva di Dante su Firenze: l’orgoglio di sé può essere causa della propria decadenza. O più prosaicamente bisognerebbe ogni tanto rileggere una chat estrapolata dallo smartphone di Luca Palamara. E’ il 17 ottobre 2017. Un pm di Milano, membro del direttivo dell’Associazione nazionale magistrati, conversa con Palamara (pm eletto al Csm) e, parlando di una certa collega giudice, dice: «Se riuscite a fottere la *** sarebbe un bel colpo». Bisognerebbe, ogni tanto, rileggersi questa prosa: per capire dove alberga, oggi, il pericolo per l’indipendenza della magistratura.

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