Ma dire «discontinuità» non basta, bisogna farla
giovedì 16 gennaio 2020

Caro direttore,
sono rimasto molto colpito dal moto di orgoglio con cui Dario Franceschini ha affermato una «discontinuità su tutto» tra il governo giallo-rosso e quello gialloverde. Franceschini è, a mio parere, uno dei migliori ministri dei Beni culturali che io possa ricordare nella storia del Paese. Tuttavia, lo spettro dei problemi 'altri' che lui ha dato per sostanzialmente risolti, e che risolti invece non sono, mi sembra molto ampio.

Non mi avventuro sui temi della manovra finanziaria, che certamente può vantare qualità sotto molti profili e soprattutto nell’aver evitato l’aumento dell’Iva e consentito di ricucire i rapporti con gli amici europei. Non posso fare a meno, però, di esprimere qualche dubbio sui temi della giustizia, sui quali si sono espressi con preoccupazioni senza sconti Luciano Violante, Giuliano Pisapia, Vladimiro Zagrebelsky e, sul suo giornale, Glauco Giostra. Il tema della prescrizione merita un ripensamento più ampio.

Ma la questione che mi colpisce più profondamente è il rivendicare una discontinuità in materia di immigrazione e accoglienza rispetto al Governo precedente. Il clima è mutato, certo, ma nulla oltre il clima complessivo che regola i rapporti tra istituzioni e società civile. Questo – come mi sono più volte espresso – non può bastare, e le organizzazioni non governative non si accontenteranno della promessa di una futura rielaborazione delle norme su cui il Capo dello Stato ha sollevato perplessità. La questione, infatti, investe tutto intero il cosiddetto 'primo Decreto Sicurezza', entrato in vigore l’anno scorso, che ha di fatto smantellato con ferocia un sistema di accoglienza e di integrazione faticosamente messo a punto negli anni passati. Il duro ridimensionamento del sistema Sprar, un’accoglienza che fa della mediocrità il punto di forza di uno standard profondamente svilito, l’aver perso di vista i temi della integrazione e dell’inclusione e l’aver addirittura dato vita a un 'Decreto Paesi sicuri' e a procedure accelerate di allontanamento dall’Italia che mai governi di destra o di sinistra avevano messo in campo, sono solo le prime cose che mi vengono in mente a proposito della famosa «discontinuità»...

Non si tratta a mio avviso di riproporre necessariamente la protezione umanitaria, che pure aveva un valore e un ragionevole fondamento, ma almeno di rivedere, ampliandole, quelle tipizzazioni previste dal decreto stesso, aprendo alla possibilità di rendere regolari, caso per caso, vulnerabili e situazioni meritevoli di attenzione che di fatto fanno già parte del nostro contesto sociale. Lo fanno i tedeschi, lo fanno i francesi, mi sforzo di comprendere, ma non riesco a capire, perché noi non possiamo farlo. Non c’è dubbio che concordo pienamente sulle dichiarazioni rilasciate ieri dall’onorevole Graziano Delrio sulla necessità avvertita già da molto tempo della riscrittura organica delle normative che regolano la migrazione nel nostro Paese, ormai troppo risalenti nel tempo e inadeguate a regolare uno scenario completamente cambiato. Debbo però, caro direttore, manifestarle una preoccupazione: una lunga esperienza ministeriale mi fa temere che i tempi di dibattito in Parlamento e di approvazione di una proposta del genere rischino di non coniugarsi con le urgenze delle persone la cui quotidianità è fortemente compromessa dai decreti che vanno sotto il nome del senatore Salvini.

E qui il discorso diventa più squisitamente politico e mi domando sulla bilancia delle opportunità quanto valgano i nostri valori costituzionali, e quelli dell’area democratica in particolare, e quanto invece la presumibile (e non dichiarata) necessità di una continuità nell’azione di governo. Forse in tanti dovremmo riprendere qualche buona lettura, di quelle che hanno costruito la nostra identità, come ad esempio don Lorenzo Milani. Questo genererebbe, forse, un po’ più di generosità politica.

Direttore del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir)

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