giovedì 27 settembre 2018
Potenziare le politiche per l’industria che siano in grado di sostenere le imprese nella corsa all'innovazione e all'ampliamento dei mercati e rendersi conto delle profonde trasformazioni del mercato
Ma 200mila vi paion pochi?
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L’eterno ritorno dell’uguale. Potrebbe sembrare eccessivo scomodare un filosofo come Friedrich Nietzsche per analizzare l’attuale dibattito sul "mercato del lavoro" in Italia. Eppure, dopo la recente proposta di riattivare la cassa integrazione per cessazione di attività e mesi di discussione sui contratti a termine, il pensiero corre in questa direzione. Si tratta di una proposta per nulla ideologica o di bandiera. Sollecitato dalle rappresentanze sindacali, il Governo si trova infatti a dover fronteggiare una vera e propria emergenza nazionale: sono circa 200mila i lavoratori, occupati soprattutto nelle imprese metalmeccaniche, a rischiare la perdita del lavoro. Ciò qualora venisse meno, come previsto per la fine dell’anno, il regime di cassa integrazione straordinaria concesso dal precedente Governo. Rischio concreto o meglio certezza considerate le novità introdotte dal Jobs Act che ha ridotto drasticamente i casi di impiego della cassa integrazione di cui si è fatto largo abuso nel recente passato.

Un tema questo che richiama quello più ampio del riequilibrio tra tutele passive e politiche attive del lavoro in un mercato in profondo cambiamento. In effetti, è difficile negare che la situazione attuale sia figlia del tentativo di applicare i princìpi europei della flexicurity anche nel nostro Paese. Cosa che si è cercato di fare col Jobs Act concentrandosi però soprattutto sul fronte della flessibilità piuttosto che su quello della sicurezza. Una sicurezza moderna non più a difesa del singolo posto di lavoro, ma giocata a tutto campo nel mercato del lavoro grazie al rilancio degli strumenti di ricollocazione che, tuttavia, mai hanno operato a regime nel nostro Paese. Aver ridotto le tutele, pur con tutte le criticità del vecchio sistema degli ammortizzatori sociali, senza averne costruite di nuove e moderne, ha creato una situazione di stallo che giustamente crea non poche preoccupazioni tra sindacati e lavoratori a prescindere dalla bontà o meno della filosofia razionalizzatrice che anima il Jobs Act. Senza ammortizzatori e senza politiche attive il destino di migliaia di persone è segnato con tutto quello che poi ne consegue non solo sulla serenità e il benessere di altrettante famiglie, ma anche sulle possibilità per molti di questi lavoratori di maturare i requisiti per l’accesso alla pensione.
Per questi motivi occorre oggi non cadere nella tentazione di ripristinare con leggerezza un vecchio modello convinti che il ritorno al passato possa essere la soluzione. È evidente che c’è una dimensione emergenziale del fenomeno, per la quale possono essere ampiamente giustificate misure in deroga, ma tutto questo a condizione che l’allungamento della cassa integrazione oggi non si riduca in un comodo alibi per lasciare al suo destino il cantiere delle politiche attive che non possono più essere quelle pensate per il "mercato del lavoro" del Novecento industriale.

E allora diventano due gli elementi fondamentali. Da un lato non interrompere, e anzi potenziare, quelle politiche per l’industria che siano in grado di sostenere le imprese nella corsa all'innovazione e all'ampliamento dei mercati di riferimento, anche attraverso seri processi di riorganizzazione. Dall'altro rendersi conto delle profonde trasformazioni del mercato del lavoro che rendono impraticabili le ricollocazioni da posto a posto. Le nuove transizioni occupazionali non possono infatti essere considerate come la conseguenza di una crisi o di una chiusura aziendale. Saranno invece molto più presenti e ordinarie all'interno di carriere discontinue e per questo un approccio emergenziale non può più essere adottato. La sfida resta sempre quella di ripensare il tessuto produttivo e il mercato del lavoro per poter ritornare a essere un Paese competitivo e allo stesso tempo giusto, nel quale il dualismo tra imprese non diventi, come spesso accade, origine di disuguaglianza per i lavoratori stessi. Si apre – deve aprirsi – un percorso che richiede una forte responsabilità istituzionale, a partire dall'uso delle risorse previste per la Legge di Bilancio, e il pieno coinvolgimento delle parti sociali. Il futuro del lavoro e delle tante imprese in crisi non dipende da un decreto, ma dallo sforzo di tutti gli attori coinvolti a perseguire il bene comune piuttosto che rendite di posizione effimere se non si è in grado di rispondere ai problemi concreti delle persone. C’è un problema immediato che riguarda almeno 200mila lavoratori, e c’è una questione strategica. L’uno e l’altra, con urgenza, vanno presi sul serio. E servono fatti non chiacchiere.

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