sabato 24 giugno 2023
Una lettrice giornalista lamenta l’abuso di WhatsApp nelle comunicazioni tra genitori, insegnanti e studenti. Un fenomeno reale che deve farci riflettere
Social a scuola, troppo per tutti. Vero. Dagli adulti l'esempio
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Una lettrice giornalista lamenta l’abuso di WhatsApp nelle comunicazioni tra genitori, insegnanti e studenti. Un fenomeno reale che deve farci riflettere. Serve un’educazione digitale, ma più ancora abbiamo bisogno di responsabilità e coerenza tra parole e fatti

Caro direttore,

sono mamma di tre bambini, la più piccola dei quali frequentante con gioia uno dei nidi comunali di Padova. Siamo molto felici della vita al nido, anche a confronto con un nido privato frequentato anni fa dai fratelli maggiori.

La mia mail di sfogo vuole riportare l’attenzione su un aspetto certamente marginale, eppure entrante, della vita di noi genitori: l’uso che la scuola fa dei canali WhatsApp. Credo necessaria ormai una specifica formazione sia genitoriale sia per quanto concerne le/gli insegnanti. E lo scrive una persona che lavora sul digitale gran parte del tempo della propria giornata, in quanto sono giornalista professionista.

Vi faccio un esempio concreto. Faccio parte anche del Comitato di gestione del nido che frequenta mia figlia. Quotidianamente una delle insegnanti invia messaggi nella chat ristretta dedicata al Comitato di gestione, chiedendo di inoltrare nella chat dei genitori tutte quelle informazioni che si trovano già sulla bacheca del nido che, mi risulta, è uno strumento ufficiale per la diffusione delle informazioni, quali scioperi, casi di malattie, chiusure scolastiche da calendario regionale. Capisco le migliori intenzioni, sia della maestra sia dei genitori, nella diffusione delle informazioni, ma l’effetto che ne sortisce è una continua frammentazione e, per contro, ripetizione delle notizie. Credo che questo modo di fare sia da sconsigliare, perché si va perdendo l’attenzione verso quegli strumenti che per loro definizione servono per diffondere notizie e informazioni, oltre a farci staccare gli occhi un momento dallo schermo.

Ugualmente capita alla scuola elementare dei miei due figli grandi che i maestri o le maestre diffondano informazioni direttamente via WhatsApp alla rappresentante di classe, magari nel fine settimana, bypassando del tutto la possibilità di far scrivere (per tempo) ai bambini e alle bambine gli avvisi sul diario e/o sul quaderno, deresponsabilizzando loro e invadendo il tempo extrascolastico delle famiglie, già grandemente impegnato dal registro elettronico.

Ecco, il mio è uno sfogo, per nulla accusatorio nei confronti di qualcuno nello specifico. Ci troviamo in questo flusso digitale che ci sconcerta, ci toglie empatia, frammenta le informazioni (vi dico solo che per la consegna di alcune piantine al nido come regalo di fine anno si è quasi scatenato il panico tra i genitori perché non era nota l’ora precisa dell’arrivo della fiorista, con un margine di errore di mezz’ora) e in definitiva ci rende piuttosto soli se appena appena si ha il coraggio di far notare anche solo uno di questi aspetti.

Non so se i Comuni possano pensare di organizzare corsi di educazione digitale per adulti, affiancata al tema dell’assertività nel linguaggio tra adulti e con i bambini e le bambine, anche in collaborazione con le Consulte di Quartiere e alla presenza dei docenti.

Lettera firmata


Quanto è vero, cara collega e cara lettrice, che il flusso del digitale in cui siamo immersi spesso finisce con lo stritolarci, mescolando tutto e tutti, informazioni e persone. E quanto è vero che siamo e ci sentiamo soli ad alzare la mano e chiedere regole per ciò che regole dovrebbe avere e – sembra incredibile – soprattutto nel mondo degli adulti non ha. Lo scrivo, sollecitata a risponderle dal direttore, con la tristezza nel cuore, in giorni difficilissimi per parlare di social network e di iperconnessioni dopo i fatti di Casal Palocco. Giorni in cui abbiamo sentito giudicare i ragazzi e il loro modo di usarli, facendo di tutta la Generazione Z un fascio e dandola per persa, malata, irrecuperabile.

Sì, è vero, anche la scuola sempre più spesso comunica attraverso i social, e nello specifico WhatsApp. Avviene per le convocazioni dei Consigli d’Istituto, per quelle delle assemblee, per i verbali, per nomine e graduatorie, a volte persino per la trasmissione delle pagelle. Presidi, insegnanti, rappresentanti dei genitori utilizzano il canale abitualmente, col risultato che la mancanza di formalità degli avvisi, e il loro mescolarsi nel flusso informe e informale di tutti gli altri, finisce con lo sminuirli, dando loro meno importanza (chissà che non sia anche questo il motivo per cui alle assemblee di istituto i genitori, specie nelle grandi città, siano in via d’estinzione…). Sulla carta non dovrebbe essere così: sia il Contratto collettivo nazionale del lavoro, nel comparto Istruzione e ricerca, sia il Contratto integrativo di Istituto prevedono che le istituzioni scolastiche comunichino attraverso canali istituzionali, tra cui figurano per altro quelli elettronici quali le mail, i siti web delle scuole, i registri elettronici.

Spetta poi ai singoli dirigenti, in accordo con gli insegnanti e le parti sindacali, disporre che alcune comunicazioni urgenti e tempestive possano passare anche attraverso i canali informali quali WhatsApp o, per fare un altro esempio, Telegram. Saltuariamente, eccezionalmente. E nel rispetto delle libertà di tutti di ricevere messaggi e di non leggerli, se mandati fuori dall’orario di lavoro. Perché – questo è il punto – il diritto alla disconnessione, il diritto a uscire da quel flusso digitale per tornare alla vita reale che gli adulti vorrebbero imporre ai bambini e ai ragazzi, esiste anche per gli adulti. Senza che nessuno di noi, tuttavia, si sogni di rispettarlo davvero.

Serve allora coerenza, prima che corsi digitali per adulti (per altro sempre più diffusi, anche se scarsamente frequentati). Serve ripartire dalla responsabilità di fare per primi il passo di un uso consapevole e consono dei social, ad ogni livello. Tocca al preside, tocca all’insegnante, tocca al giornalista, tocca a mamma e papà. E poi, vivaddio, tocca anche ai ragazzi.

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