Alla scoperta dell'essenza
sabato 28 agosto 2021

Erode cercava Giovanni e mandò dei servi da Zaccaria a dirgli: dove hai messo tuo figlio?... Ed Erode infuriatosi disse: è suo figlio che è destinato a regnare su Israele
Protovangelo di Giacomo, XXIII

Il rapporto tra Gesù e Giovanni Battista è essenziale per comprendere la nascita del cristianesimo. Secondo il Vangelo di Giovanni (diversamente dagli altri Vangeli sinottici), non solo Gesù frequentò il movimento del Battista, ma alcuni dei primi apostoli erano discepoli di Giovanni (tra questi Pietro, Andrea e l’anonimo "discepolo che egli amava": Gv 1,40-42). In un antico testo etiope si legge: «Un discepolo di Giovanni disse che il Messia era Giovanni e non Gesù» (Pseudo-Clemente, Ritrovamenti I,60, a cura di Silvano Cola). L’Apollo di cui parla Paolo riguardo alcuni dissidi a Corinto – «io sono di Apollo, io di Cefa, e io di Cristo» (1Cor 1,11-12) – era un discepolo del Battista (At 18, 24-25). Segnali che il dialogo-polemica tra i due movimenti durò ben oltre la morte dei fondatori. Sempre dal Vangelo di Giovanni sappiamo che Gesù e i suoi discepoli battezzavano in Giudea (3,22).

L’attività di battezzatore di Gesù è un dato molto scomodo per la teologia di Giovanni, tanto che poco dopo lo rettifica: «Sebbene non fosse Gesù in persona a battezzare, ma i suoi discepoli» (4,2). Rettifiche che segnalano controversie su questo aspetto (il battezzare) all’interno delle comunità cristiane, dove erano confluiti molti (non tutti) discepoli del Battista: «Di sicuro Gesù ha agito come battezzatore accanto a Giovanni per un certo periodo» (Il Battista e Gesù, A. Destro e M. Pesce, p. 165). Non sappiamo quanto durò la fase"’battista" di Gesù, ma dai Vangeli possiamo dedurre che non fu breve - probabilmente battezzò per tutta la vita, dato che gli apostoli continuarono a battezzare anche dopo. Forse in una prima fase Gesù condivise anche la vita selvatica di Giovanni, come può suggerire il racconto delle tentazioni nel deserto. In Marco leggiamo poi un dettaglio importante: Gesù lascia la comunità del Battista e torna in Galilea «dopo che Giovanni fu arrestato» (Mc 1,14). Quell’arresto, la cui storicità è testimoniata anche dallo storico ebreo-romano Flavio Giuseppe (A.G., XVIII), rappresentò un momento di svolta nel rapporto tra Gesù e il Battista. Il Vangelo di Giovanni dà un’altra spiegazione del ritorno in Galilea di Gesù, ma anche questa è legata al rapporto col Battista: «Gesù venne a sapere che i farisei avevano sentito dire: "Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni" ... lasciò allora la Giudea» (4,1-3).

Fin qua Giovanni e Gesù. Ci sono comunità che nascono ex-novo. Altre invece sono precedute da un discepolato, una sequela che può durare anche molto tempo – è difficile diventare buone guide senza aver prima imparato a seguire qualcuno. In questi casi, all’inizio la persona è sinceramente convinta che la comunità dove ha incardinato la propria vocazione sia quella dove resterà per sempre. Non la vive come comunità transitoria, perché all’inizio le autentiche vocazioni si trovano in un eterno presente, dove non c’è posto per nulla che non sia "per sempre". Una innocenza donata, bambini spirituali senza passato né futuro. La persona si riconosce perfettamente in quel carisma, sente una consonanza spirituale ontologica assoluta. Non si sente ospite, ma uno di casa, qualche volta il padrone di casa. Non è né il mare né il deserto, è la terra promessa. Lì inizia la sua vita spirituale, lì apprende l’abbecedario della vita comunitaria, lì impara la grammatica della "voce". E se quella vocazione genererà domani un’altra comunità, nella comunità futura ci saranno tracce della prima, anche quando la persona non ne è pienamente consapevole o, se l’uscita è stata difficile, lo nega (o la negano i discepoli).

Anjezë entra da ragazza nell’Istituto della Beata Vergine Maria (o suore di Loreto) in Albania. Lì prende il nome di Teresa. Vi resta per diciotto anni, fino a quando il 10 settembre 1946, in un polveroso treno "«aprii gli occhi sulla sofferenza e capii a fondo l’essenza della mia vocazione». In quel momento Teresa intuisce l’essenza della sua vocazione. Penetra più in profondità, fino a toccare il cuore del cuore. Ha avuto bisogno di diciotto anni. Nel 1950 fondò le Missionarie della Carità. Teresa non cambia di nuovo nome, il nome resta quello della prima vocazione. Come Silvia Lubich che resta Chiara, il nome che aveva preso entrando nel Terz’Ordine francescano di Trento, quando alcuni anni dopo capisce l’essenza della sua vocazione e dà vita ad una nuova comunità. L’essenza non vuole un terzo nome; le basta il secondo, qualche volta il primo. Perché la nuova vocazione è penetrazione nell’essenza della prima, fino a sentirne il profumo unico. Teresa lascia le suore di Loreto per fondare qualcosa conforme alla sua essenza, ma nelle Missionarie della Carità ci sono le tracce delle suore di Loreto. Lì aveva conosciuto l’India, se ne era innamorata, aveva detto il suo sì ai poveri, lì aveva imparato l’arte della sequela. Se nella teofania del battesimo di Gesù c’è un ricordo di qualcosa di storico (ed è probabile), è più facile che sia stato la manifestazione della prima vocazione di Gesù, non della seconda.

La scoperta dell’essenza della propria vocazione assume varie forme, alcune traumatiche. Qualche volta genera un nuovo ramo dello stesso albero – basti pensare alle centinaia di famiglie francescane, o ai riformatori delle comunità. Altre volte l’uscita fa nascere un nuovo albero, che cresce accanto al primo, spesso collegati nelle radici. Qualche altra volta l’albero cresce fuori dal bosco, e aumenta l’ossigeno di tutti. La scoperta dell’essenza è un’esperienza di grande luce e di grande dolore, insieme. Molti la vivono con una sensazione di tradimento che può durare anni, e qualche volta diventa una ferita-cicatrice che resta per tutta la vita. Ma a un certo punto arriva il giorno in cui si capisce che è giunta l’ora, e si deve partire. Un momento decisivo, perché se non si parte nel momento giusto e il processo di coesistenza tra vocazione ed essenza della vocazione dura troppo, la seconda vocazione può guastarsi. Un processo mai facile, perché chi resta fa di tutto per fermare chi vuole partire, con argomenti del tipo: "Ma cosa ti manca qui per fare quello che vuoi fare?". Parole molto efficaci perché vere per molti, ma quasi vere per chi ha una seconda vocazione. Il difficile discernimento consiste nel riuscire a cogliere la differenza tra la verità e la quasi verità, una differenza impercettibile senza una vocazione specifica – e senza esperti e onesti accompagnatori.

L’analogia Giovanni-Gesù ci suggerisce che l’uscita di scena della persona che impersonava il primo carisma può diventare il punto di svolta. Ci si ritrova nella condizione oggettiva di libertà per poter spiccare il proprio volo, senza più il timore di deludere colui/colei che tanto amiamo. Se la persona ha grandi talenti spirituali (spesso è così), su di lei la prima comunità aveva dei progetti, delle aspettative, delle speranze, che diventano altri lacci che possono bloccare il volo verso altri progetti e speranze. Non si tratta del noto bisogno del figlio di uccidere il padre per poter diventare adulto. Nelle dinamiche di comunità ci sono anche queste cose, ma non è il caso che stiamo analizzando. Qui la persona che cerca la propria essenza dopo l’uscita del fondatore non uccide nessun padre. È la condizione oggettiva di assenza della persona-chiave nella prima comunità a creare lo spazio necessario per iniziare la nuova. Come accade quando una malattia, non voluta né cercata, ci genera a una nuova maturità che forse non avremmo raggiunto senza quella malattia. La morte del Battista, però, ci può suggerire ancora qualcos’altro. È un dato di fatto che la morte o l’uscita di scena del fondatore dà inizio un periodo nel quale un grande numero (se rapportato a prima) di persone lasciano la comunità. E lo fanno per diverse ragioni, molte legate al nuovo spazio creato dall’assenza. Tra questi che lasciano ci possono essere anche delle "Terese" che escono per fondare una nuova stupenda avventura collettiva – fosse anche "soltanto" una famiglia. E come ci suggerisce la vicenda di Gesù, accade spesso che la scoperta della nuova vocazione porti con sé alcune compagne e compagni della prima comunità –ulteriore motivo di dissapori e tensioni.

Da qui un messaggio. I fondatori non dovrebbero aspettare la propria morte o la pensione per creare questo spazio di libertà. Troppe comunità (ma anche imprese) nate nel secolo scorso oggi fanno molta fatica perché sono cresciute come un tronco unico senza rami e senza generare altri alberi. Perché, quando hanno intravisto una "bella anima", troppo forte è stata la tentazione di metterla a reddito per lo sviluppo della comunità. E così i talenti più grandi sono stati orientati alle sue esigenze organizzative, tutta la loro creatività indirizzata verso gli obiettivi definiti dettagliatamente dal fondatore. Mentre questa operazione è (quasi) inevitabile nella prima generazione, se continua anche nella seconda e successive le comunità diventano tronchi isolati e spelacchiati, che perdono progressivamente foglie, fiori e poi i frutti. Solo un bosco carismatico domani può salvare il primo albero di oggi. Ma il bosco, fuor di metafora, non si forma senza una "politica del personale" che consenta a Gesù - un uomo che non era soltanto un uomo – di fiorire anche fuori dal movimento del Battista. Anche perché è raro che i fondatori operino solo tre quattro anni, come fu per Giovanni, e per lo stesso Gesù – non è da escludere che la grande generatività e varietà della Chiesa primitiva sia dipesa anche da questo.

Il nome di questa politica è "castità comunitaria", quella che consente di vedere arrivare una persona bella, nutrirla finché è con noi e poi aiutarla a capire chi è veramente, dentro la prima comunità o fuori. Castità difficilissima, perché alcune delle persone lasciate libere di partire non tornano più. Ma ci saranno anche quei rami del tronco e quegli alberi dello stesso bosco che consentiranno al carisma di continuare la sua fioritura. Senza sprecare, in una eccedenza generosa, una parte della semente, nessun seme del carisma raggiunge il terreno buono. Un fondatore sapiente è colui che quando vede arrivare una nuova persona, dovrebbe porsi come primo obiettivo individuare quale è il ramo o l’albero che questa persona potrà generare, e non metterla subito a fare il giardiniere dell’unico grande bellissimo albero della comunità presentato come albero ormai compiuto e immodificabile che ha solo bisogno di manutenzione e acqua – anche quando quella persona annaffia molto bene. Molte crisi, appassimenti e uscite non generative si sarebbero potuti evitare se le persone avessero avuto vicino qualcuno capace di leggere nel loro disagio la fatica di arrivare all’essenza della loro vocazione. Nel Regno dei cieli le fioriture sono libere, varie, eccedenti, colorate, plurali, sinfoniche.

l.bruni@lumsa.it

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