La terra del non-ancora
sabato 15 gennaio 2022

Dio è dietro ad ogni cosa, ma ogni cosa nasconde Dio
Victor Hugo, I miserabili, Tomo II, 5.4

Non è facile capire veramente la durezza dei profeti nei confronti degli idoli e dell’idolatria. Il capitolo sei del libro di Osea, dove si trovano riferimenti cari anche al cristianesimo, affronta un aspetto centrale di questa lotta anti-idolatrica. Denuncia il popolo che si illude di conoscere Dio (YHWH) e invece lo confonde con il dio naturale delle stagioni e del ritmo dei giorni: «Affrettiamoci a conoscere YHWH, la sua venuta è sicura come l’aurora. Verrà a noi come la pioggia d’autunno, come la pioggia di primavera che feconda la terra» (Osea 6,3). Un dio ovvio, catturato dentro l’ordine naturale delle cose, che deve venire come viene ogni giorno l’aurora, come la pioggia, come l’autunno. Senza sorprenderci.

Un canto dell’illusione religiosa, che però contiene una frase che i primi cristiani e poi i Padri (Tertulliano) hanno amato molto: «Venite, ritorniamo al Signore... Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci rialzerà». Dopo due giorni... il terzo ci rialzerà, ci risorgerà. Quando Paolo scriverà ai Corinti: "Cristo è risorto il terzo giorno secondo le Scritture» (1 Cor 15,4), è probabile che le Scritture che aveva in mente fossero proprio questo brano di Osea – lo Spirito può trarre parole di vita anche da canti che non piacevano ai profeti.

In questa critica all’identificazione di YHWH con gli dèi naturali della fertilità ci può essere qualcosa di importante. È bene soffermarvisi. Nella Bibbia e, poi, nel cristianesimo esiste una vena profonda che si intreccia con le religioni primitive e i culti naturali. L’uomo biblico è emerso dalle forme di religiosità arcaica, dove le divinità si scorgevano nel ritmo della vita e della morte, del sole, degli astri. Era questo il suo mondo, non ne conosceva altri. Sapeva che la vita dipendeva radicalmente dalla fertilità della terra, dalla generosità delle stagioni. Sentiva, per un istinto invincibile, che la sua terra era abitata anche da esseri invisibili ma realissimi, ai quali si sentiva legato e dai quali dipendeva la vita di tutti e del tutto. Fu quindi inevitabile che le prime parole con cui gli uomini hanno parlato con gli dèi fossero quelle che avevano imparato dalla natura e dalla vita, perché erano le sole che conoscevano e amavano. Nacquero così, all’aurora della civiltà, i grandi miti del dio che muore in autunno resta nel sepolcro in inverno e poi risorge nella primavera, del dio che feconda la terra con la pioggia e la neve e questa poi partorisce generando fiori e frutti, nei campi e nei vasetti di Adone. Inserirono le prime narrazioni religiose dentro questo grande ciclo della natura, le disegnarono con questi colori vivi. Donarono a Dio le loro parole più belle.

Cosa se ne fece la Bibbia di questa religiosità naturale? La considerò tutta vanitas? Sì e no. Per gli uomini e le donne in carne e ossa del popolo d’Israele non lo era: loro sentivano Dio sotto tutte le cose, come i popoli loro vicini, come i nostri nonni contadini che avvertivano un fremito divino percorrere le loro stesse strade, inseguire la traccia del cervo e della volpe, sentivano che la morte non era l’ultima parola e sapevano che una misteriosa primavera di vita li avrebbe, un giorno, sorpresi, e avrebbero rivisto genitori e figli. Intonavano gli stessi canti alle vigne e all’ultimo covone, pregavano per la pioggia e perché non tornasse il terremoto. Così abbiamo imparato a pregare, a parlare con gli angeli e con i demoni, a intravvedere Dio dietro ogni cosa e subito dopo vederlo sparire.

Un giorno, però, un diverso giorno, la Bibbia ci dice che è accaduto qualcosa di nuovo e di imprevisto. Quando, dentro un mistero avvolto sempre e ancora da una nube velatrice-rivelatrice, quel Dio che tutti i popoli avevano sentito e cercato di intercettare, ci disse qualcosa di nuovo di sé, ci donò parole che non avevamo ancora. E iniziò la storia diversa di un popolo da cui nacque la Bibbia, il cui primo scopo non fu quello di raccogliere le parole su Dio che gli uomini conoscevano già, ma di farci conoscere quelle che non c’eranoancora. Era questo "non ancora" l’immenso valore della Bibbia, questo il suo tesoro prezioso che il popolo ha custodito. E per sottolineare la novità delle parole di cielo, le parole religiose della terra finirono per diventare le parole degli idoli, degli "dèi falsi e bugiardi". Si capisce allora perché la prima lotta all’idolatria che la Bibbia ingaggiò fu quella interna al suo popolo, perché la religiosità della terra e della natura era quella da cui venivano anche le tribù di Giacobbe. Erano figli di Abramo e dei miti medio-orientali, dei culti naturali di dèi più semplici. Culti molto amati dalla gente, contro i quali la Bibbia è stata molto dura – e i profeti durissimi – perché voleva affermare una novità, e continua ad affermarla. La Bibbia fece molta fatica a separare la vera fede da quella nelle divinità della natura perché il popolo sentiva che in quelle antiche tradizioni che avevano appreso a Canaan, portate con sé da Ur dei Caldei o dall’Egitto, c’era anche qualche traccia vera dello stesso Dio che un giorno aveva rivelato il suo nome vero. Ogni rivelazione di dimensioni nuove della realtà è una distruzione creatrice, e quasi sempre tra i materiali distrutti e spazzati via ce ne sono anche alcuni buoni. I profeti, per vocazione, demoliscono senza pietà templi, capitelli e mosaici antichi, qualche volta molto belli, e alcuni si perdono per sempre, perché l’area che copre la nuova religione non coincide mai con quella coperta dalle precedenti.

È dentro questo discorso che dobbiamo collocare anche la critica di Osea con la sua (per noi) sconcertante forza e durezza: «Per questo li ho colpiti per mezzo dei profeti, li ho abbattuti con le parole della mia bocca» (6,5). La profezia è anche questo: «Sradicare e demolire, distruggere e abbattere» (Geremia 1,10). Ma siccome le case che vengono abbattute dai profeti sono quelle nelle quali il popolo abita, inclusi i palazzi dei re e i templi dei sacerdoti, il lavoro dei profeti è durissimo, doloroso, non è amato né capito. E loro continuano a picconare, a cacciare le persone dalle loro casette e i re dalle loro regge; e lo fanno – e qui sta il punto – non per costruire altri palazzi e nuovi templi al posto dei precedenti, ma per tornare poveri e liberi e poi riprendere il cammino verso una terra che resta sempre promessa, la terra del non-ancora. I profeti veri non sono amati perché distruggono case e al loro posto offrono tende, abbattono templi e ci donano uno spazio vuoto, distruggono le nostre case e ci lasciano al freddo di una nuda sequela. Chi obbedisce ai profeti? Nessuno.

Ed è al culmine di questo canto che raggiungiamo, forse, la perla più preziosa di questo capitolo. Eccola: «Perché voglio la misericordia non il sacrificio, la conoscenza di Dio preferisco agli olocausti» (6,6). Voglio l’hesed (cioè misericordia, amore fedele, reciprocità, lealtà) e quindi la conoscenza vera di Dio-YHWH. Dall’altra parte, cioè nella parte sbagliata, ci sono i sacrifici. Siamo arrivati al centro, siamo nel punto centrale non solo di Osea, ma di tutta la profezia, e forse non solo della profezia biblica ma di ogni profezia autentica - di profezia è piena la terra, anche la nostra terra arida e senz’acqua. C’è un conflitto, un’alternativa, un "fossato" (J. Jeremias) tra la fede dei profeti e quella del tempio, cioè tra la fede fondata sull’hesed e quella fondata sui sacrifici, tra la civiltà della gratuità e la civiltà del calcolo, tra la religione dell’amore e quella commerciale.

Amore e sacrifici: due strade religiose diverse, opposte, incompatibili, come rivela anche il verbo ebraico usato da Osea (hps), che dice chiaramente che Dio ama, gradisce, vuole, apprezza l’hesed e non vuole, non ama, non gradisce i sacrifici, gli danno fastidio. Nel mondo antico i sacrifici li facevano tutti, inclusi i sofisticati greci e i giuridici e razionali romani. In questo ambiente sacrificale, accettato da tutti e adorato dai sacerdoti, Osea grida che offrire sacrifici non solo è inutile (Qoelet) ma dà fastidio a Dio, lo disturba. In questi gridi i profeti sono immensi e meravigliosi, qui sono davvero diversi da noi. Noi possiamo, con coraggio, arrivare a dire: "I sacrifici sono meno importanti dell’amore, ma un po’ di culto ci vuole pure, qualche offerta al tempio non fa male a nessuno, il popolo ama queste pratiche". I profeti veri e grandi no. Loro ci dicono altro, ci dicono l’opposto. Sono tremendi e radicali, squilibrati, partigiani, divisivi, non gentili, esagerati, eccessivi.

Come Gesù di Nazareth, che di fronte ai molti che protestavano per il suo frequentare peccatori pubblici (Matteo, l’esattore), cita propria questa frase di Osea: «Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13); e poi la ripete per spiegarci come guardare la Legge e il tempio: «Se aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa» (Mt 12,6-7). Qui Gesù ci spiega Osea, mostrandoci che l’alternativa-fossato-conflitto tra amore e sacrificio non si limita alla sola vita religiosa ma si estende all’intera vita sociale. Non solo ci ripete, con Osea, che la sua religione non è quella dei sacrifici, ma quella dell’amore-hesed-agape; ci dice anche che la cultura del sacrificio è un rapporto sbagliato con la vita, non solo con Dio. Perché è la relazionalità basata sul calcolo e non sulla generosità, sulla logica economica e non sull’eccedenza. La logica del sacrificio è prima una trappola antropologica e dopo una questione teologica e religiosa. È la logica di chi vive facendo conti, calcolando i costi e benefici di ogni azione, perché, in fondo, è ateo, non crede che siamo amati, che nel mondo esiste un grande candore, che siamo figli. La fede sacrificale imprigiona Dio in una gabbia più angusta di quella dell’uomo più tirchio. Chi imposta la vita sui sacrifici crede nella meritocrazia perché non crede nella grazia, non si fida della grande provvidenza del mondo e quindi si compra una piccola provvidenza privata che non lo sazia mai.

I profeti lottano con tutte le loro forze contro i sacrifici per dirci: voi valete di più delle vostre opere, siete più grandi dei vostri calcoli, siete migliori dei vostri contratti, siete amati anche se non lo meritate: perché ti amo e basta, non per i tuoi meriti, ti amo per te. Combattere la religione dei sacrifici allora significa rinunciare ad una visione del mondo meschina, impoverita, avara. I profeti allargando la nostra idea di Dio allargano l’idea che noi abbiamo degli altri e di noi stessi.

l.bruni@lumsa.it

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