domenica 28 ottobre 2012
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«Per me è stato veramente edifican­te, consolante e incoraggiante ve­dere qui lo specchio della Chiesa universa­le con le sue sofferenze, minacce, pericoli e gioie... Abbiamo sentito come la Chiesa, an­che oggi, cresce e vive». Le parole di Bene­detto XVI alla conclusione del Sinodo allar­gano il cuore dei cristiani: come quando su un sentiero aspro di montagna si cammina concentrati sui propri passi, e poi improv­visamente, distogliendosi dalla fatica e dal­l’affanno, si alza lo sguardo – e si rimane muti davanti alla larghezza della terra e al­l’infinito del cielo. La Chiesa, ha ricordato ieri il Papa con un accento di commozione, è sempre Chiesa di tutti i popoli, è sempre Chiesa di Pentecoste. (Così che se dalla pro­pria particolare limitata visuale la fede sem­bra dentro un inarrestabile declino, altrove già sta cominciando a rinascere; spesso lon­tano, e dove non te lo aspetteresti, dopo lun­ghi anni di desertificazione, quando tutto sembrava finito). Di «deserto» aveva parlato pochi giorni fa Benedetto; e però già suggerendo come pro­prio quel vuoto sia in realtà un possibile luo­go e tempo di domanda. Nel de­serto chi vuole vivere va a cerca­re un pozzo. Come la samaritana, ricordata nell’incipit del messag­gio finale dei padri sinodali: che nell’arsura bollente di un mezzo­giorno mediterraneo arriva al pozzo, con il suo secchio vuoto. Ma «è l’acqua del pozzo che fa fio­rire il deserto». È l’immagine del­la penultima riga del discorso del Sinodo. E chi, dopo avere scorso le riflessioni realiste e pensose dei padri sinodali, arriva a questa pe­nultima riga, si ferma: a questa frase che suona benedizione e profezia. L’acqua del pozzo fa fiorire il de­serto. Chi sia passato dalla costa meridionale della Sicilia alla fine dell’estate sa come quella terra ap­paia, in quel momento dell’anno, totalmente prosciugata. Secca e aspra e quasi dolorosa la campa­gna, bruciata in ogni piega da un sole già africano. In una terra co­sì, pensa chi passa, non può più germinare niente. Ma lo straniero dopo un po’ si accorge che nei giardini delle rare masserie, da dentro i muri di cinta, spunta una vegetazione straordinaria e lussu­reggiante: oleandri e bouganville sgargianti, e fiori che in Italia nor­malmente non vedi, grandi, colo­ratissimi, barocchi nei calici cir­condati da api adoranti. E quel profumo struggente dei gelsomi­ni che si sporgono, incontenibili, dalle inferriate? Allora lo stranie­ro capisce il miracolo dell’acqua: è l’acqua, che fa fiorire il deserto. Noi lombardi fatichiamo a rico­noscere quale dono sia l’acqua, giacché ne abbiamo ovunque e in abbondanza. Ma quella Sicilia riarsa e annichilita dall’agosto rivela cosa davvero genera vita anche nel più sassoso e brullo deserto: è l’acqua, che sgorga dai poz­zi. L’acqua, che fa fiorire il deserto. E cosa o chi sia poi davvero quell’acqua, noi cristiani lo sappiamo, o almeno lo abbiamo un tempo imparato. (Quelle parole nel si­lenzio e nella luce accecante, nell’aria im­mobile sotto il sole allo zenit: «Se tu cono­scessi il dono di Dio, e chi è colui che ti chie­de da bere, tu stessa gliene avresti chiesto, ed egli ti avrebbe dato acqua viva»). Non c’è uomo o donna che, nella sua vita, non si ritrovi, come la donna di Samarìa, accanto a un pozzo con un’anfora vuota, hanno scritto i padri sinodali. Ma, hanno aggiunto come spinti da una urgenza, «sen­tiamo l’esigenza di dirvi che la fede si deci­de tutta nel rapporto che instauriamo con la persona di Cristo». Duemila anni dopo la Chiesa si rimette in cammino nella assolu­tezza di questa affermazione: tutto comin­cia dal volto di Cristo, vivo fra noi, non no­bile maestro o pio ricordo. E poi, a chiusa, quella promessa: l’acqua del pozzo fa fiori­re il deserto. Quelli delle grandi metropoli e quelli che abbiamo in noi. Sembra – ed è – benedizione, e profezia.
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