Lo scacco alla conoscenza come fattore critico
martedì 20 giugno 2023

Caro direttore,

la scomparsa di Silvio Berlusconi ci spinge anche a interrogarci su ciò che è accaduto nel nostro Paese in questo lungo trentennio, segnato da un pesante arretramento, civile, culturale e democratico. Trovo a maggior ragione sorprendente il racconto di questi giorni, teso a farne una sorta di eroe popolare, anche se sono consapevole che molti governi di vario colore, in una fase storica che ha visto una ridefinizione dei rapporti di forza tra capitale e lavoro a vantaggio del primo, hanno contribuito all’arretra-mento oggettivo sul piano dei diritti del lavoro e dei diritti sociali. Tuttavia, non possiamo prescindere dalla rigorosa analisi del ber-lusconismo: parlo soprattutto della costruzione dell’immaginario popolare attraverso l’uso spregiudicato della televisione privata e l’abbattimento della conoscenza come fattore critico e motore del conflitto sociale.

Le tv private di proprietà di Berlusconi hanno creato l’humus culturale che ha forgiato intere generazioni, con un fine immediatamente evidente: la competizione con le reti del servizio pubblico doveva avvenire sul piano dell’infotainment, ovvero dell’intrattenimento leggero, dell’abitudine a certo linguaggio, dell’immagine delle donne piegata a un uso mercantile del corpo, della tv come veicolo di pubblicità, e non viceversa. La costruzione dell’immaginario popolare ha poi contribuito a determinare la spinta culturale di massa verso la vittoria alle politiche del 27 marzo del 1994 e a una malintesa e astuta definizione di libertà, secondo la quale ciò che non è esplicitamente vietato dalle leggi è lecito. C’era un messaggio ai giovani in quella omologazione culturale: ogni fine giustifica ogni mezzo, e se vuoi diventare ricco e famoso, evita di perder tempo a studiare, diventa imprenditore di te stesso, competi. Era la nascita della dottrina individualistica.

Emergeva una versione tutta italiana del modello culturale già dominante nel mondo anglosassone, quello thatcheriano e reaganiano. Nell’epopea berlusconiana di questi giorni mancano alcuni elementi chiave della sua attività di governo: le sue iniziative su previdenza e lavoro e soprattutto gli interventi per tagliare risorse per le strutture pubbliche della conoscenza. Quale era il messaggio? « Affamare la bestia», ebbe a dire Giulio Tremonti con lo slogan mutuato dal reaganismo, anche per giustificare ideologicamente i tagli alla scuola, alla ricerca e all’università durante la grande crisi iniziata nel 2008, mentre i nostri partner e competitori come Germania e Francia aumentavano gli investimenti in questi settori vitali.

Un errore storico, proprio mentre serviva un investimento strategico in educazione, scienza e tecnologia, assumendo l’ambiente come vincolo e fattore trainante. Dopo il 2001, il messaggio divenne ancora più chiaro: individualismo come forma di vita collettiva, competizione in ogni livello dell’esistenza, la creazione dell’ideologia del manager ricco e potente come modello di potere e successo, il privato come destino, la povertà come colpa. Il berlusconismo è insieme un’ideologia culturale di massa e una ideologia dell’impresa privata (senza “lacci e lacciuoli da parte dello Stato”, come amava affermare l’allora presidente del Consiglio). Il liberismo individualista di massa s’era già fatto strada attraverso la rieducazione televisiva mentre l’ideologia della privatizzazione dello Stato andava costruendosi negli anni dei suoi governi. La condizione delle lavoratrici e dei lavoratori è un indicatore oggettivo.

La precarietà, i bassi salari, lo stato della scuola, del welfare e della sanità ci dicono che per un lungo trentennio i diritti costituzionali sono stati messi in discussione dopo una stagione di avanzamenti, guidata da grandi lotte sociali e democratiche, e da organizzazioni sindacali forti e coese. Unità e coesione sindacali che Berlusconi ha cercato sempre di minare, isolando di volta in volta la Cgil. Nel nostro dibattito pubblico ciò viene purtroppo rimosso. Ecco, valutiamo assieme questi anni per ciò che sono stati, per evitare di commettere gli stessi errori, e soprattutto per guardare ai bisogni reali di milioni di persone, di lavoratrici e lavoratori, di famiglie, di ragazze e ragazzi la cui esistenza oggi è davvero resa difficile e insostenibile dalle tante disuguaglianze e dalle povertà originate in un trentennio.

Presidente Fondazione Di Vittorio

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