Quante volte papa Paolo VI fu solo. Solo alla fine, quando ebbe il coraggio, quasi la sfrontatezza evangelica di chiedere ai brigatisti di liberare il suo amico Aldo Moro – altro uomo più solo che mai – così, semplicemente, senza nulla ricevere in cambio. Solo più volte, quando prese decisioni difficili che non si adeguavano allo spirito del mondo, e lo spirito del mondo scuoteva le spalle girandogliele. Solo anche quando decise che il nostro Paese aveva bisogno di un quotidiano di ispirazione cattolica, un unico strumento di informazione e opinione per tutti gli italiani, dall’impronta evidente ma con la vocazione a dialogare con tutti.
Papa Montini, in questo 2018 in cui sarà santo, solo non sarà. Ma tra tutti coloro che già corrono a festeggiarlo noi di "Avvenire" abbiamo la gioia e sì, anche l’orgoglio di trovarci in primissima fila. Perché noi siamo suoi figli, perché lui (in scarna e audace compagnia) ci ha voluti, perché pare proprio avesse ragione e la sua creatura non era poi così gracile come certe trombette laiche e cattoliche avevano annunciato – il bimbo non supererà la nottata... – e oggi, 50 anni dopo, ci siamo, abbiamo forza e dedizione e abbiamo lettori, tanti (e ne vorremmo sempre di più), che sono migliori di noi e ci aiutano a non acquietarci mai.
Figli, facile a dirsi. Ci sono figli che tradiscono i padri. Che ne disattendono le buone e legittime aspettative. Che figli siamo stati noi, in questo primo mezzo secolo? La Chiesa italiana ha attraversato stagioni mutevoli, e noi con lei. Ma qualcosa è sempre rimasto identico. Ed è il modo di guardare al mondo. Di ascoltarlo. E di raccontarlo.
Chi ha descritto il nostro stile alla perfezione non poteva essere che nostro padre, Paolo VI. Le radici sono nel suo stile pastorale, fin dai tempi della Fuci a Brescia, poi in Vaticano, e ancora alla guida della Chiesa ambrosiana, infine da Papa nella stagione formidabile del Concilio. Ma il testo dove meglio ritroviamo noi stessi è l’Evangelii nuntiandi, l’esortazione apostolica della fine del 1975 che tanto deve aver sussurrato al cuore e alla mente pure di padre Bergoglio, perché i suoi echi giungono nitidi anche nella nostra stagione con il magistero di papa Francesco.
Potevamo essere figliastri disgustati dal mondo corrotto, così lontano da Cristo, decisi quindi a contrapporci e combatterlo impugnando il Vangelo come verità che giudica, condanna e, se necessario, fa tabula rasa. Potevamo essere figliocci che cedevano alla lusinghe e allo spirito del mondo, tanto da annacquare l’ispirazione cattolica fin quasi a farla svaporare. Potevamo.
Siamo stati e siamo altro. Abbiamo amato e seguito l’impronta montiniana, e imboccato la via più ardua. La via del discernimento, dell’intelligenza, della fede anche come strumento «per amare quelli che non credono», come definivamo "Avvenire" ieri, e oggi per affermare in mondo ferito da crescenti aridità e disuguaglianze che «la consapevolezza cambia il mondo». La consapevolezza costruita insieme, informando con onestà, dicendo la nostra, ascoltando, dialogando: ciascuno forte della propria identità religiosa e culturale, un’identità che non ingabbia e non genera pregiudizio, ma è necessaria per un incontro vero, pulito e leale.
Siamo stati quel che Paolo VI, oggi beato e tra poco santo, chiedeva a tutti gli evangelizzatori, ossia i battezzati consapevoli di quel che comportasse la chiamata del Battesimo: evangelizzare è «trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità»; e «lo scopo dell’evangelizzazione è un cambiamento interiore», è «raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e il disegno della salvezza». Magnifico programma. E magnifico programma editoriale, davvero.
E le culture? Anche quelle che appaiono aggressive, minacciose, da cui verrebbe voglia soltanto di difendersi, o aggredirle creando una sorta di «alternativa cattolica»? Paolo VI scrive parole definitive: «Indipendenti di fronte alle culture, il Vangelo e l’evangelizzazione non sono necessariamente incompatibili con esse, ma capaci di impregnarle tutte, senza asservirsi ad alcuna». Culture, aggiungeva, che vanno «rigenerate mediante l’incontro con la Buona Novella».
È bello pensare che, facendo i conti con le nostre capacità e i nostri limiti, questo stiamo cercando di essere da mezzo secolo. Con una nuova, meravigliosa consapevolezza: se finora avevamo avuto un padre qui sulla terra, ora abbiamo anche un santo protettore lassù in Cielo.