mercoledì 10 ottobre 2012
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Il riconoscimento di un traguardo della ricerca, ancor più se autorevole come il premio Nobel, ricorda a tutti il valore della scienza quale grande avventura della mente umana e potente strumento per una conoscenza lucida e profonda della natura, delle sue leggi e delle opportunità che queste ci offrono per addentrarci nei segreti della vita e del mondo, sino a lambire la soglia del Mistero. Come ha ricordato Benedetto XVI nel maggio scorso, «si può dire che lo stesso impulso alla ricerca scientifica scaturisce dalla nostalgia di Dio che abita il cuore umano». Per questo «luogo sorgivo che la ricerca scientifica condivide con la ricerca di fede, scienza e fede hanno una reciprocità feconda, quasi una complementare esigenza dell’intelligenza del reale».Quando questa «reciprocità feconda» non viene riconosciuta può farsi strada tra gli uomini di scienza il timore che la fede, e il giudizio sulla realtà che da essa scaturisce, siano di ostacolo alla libertà della ricerca, interrompendo alcuni sentieri e precludendo la possibilità di raggiungere obiettivi di rilevante interesse teorico o applicativo. Se è vero che lo sguardo sulla vita dell’uomo che nasce dalla fede porta il credente ad abbracciare, con evidenza e decisione maggiore, le ragioni del rispetto e della tutela che le sono dovute in ogni circostanza, il limite etico della ricerca sperimentale non costituisce però – né di principio né di fatto – un impedimento alla fecondità della ricerca stessa. Ma, paradossalmente, se accolto come una provocazione ad allargare l’orizzonte della ragione scientifica, esso rafforza la capacità di intelligenza del reale, stimolando l’esplorazione di percorsi della ragione e della sperimentazione forieri di soluzioni alternative per raggiungere il medesimo obiettivo. È, questo, il caso delle ricerche premiate con il Nobel per la Medicina 2012.Facendosi voce di ragioni "laiche" e illuminate dalla fede, nel 2000 Giovanni Paolo II ricordava che vi sono strade verso la terapia cellulare di alcune malattie che «non comportano né la clonazione né il prelievo di cellule embrionali, bastando a tale scopo l’utilizzazione di cellule staminali prelevabili in organismi adulti. Su queste vie dovrà avanzare la ricerca, se vuole essere rispettosa della dignità di ogni essere umano, anche allo stadio embrionale». Quelle parole parvero ad alcuni studiosi come un macigno gettato sulla strada degli studi sulle cellule staminali umane e le loro proprietà rigenerative dei tessuti lesionati, una pesante ingerenza della fede nella libertà della scienza. Altri ricercatori, invece, raccogliendo la sfida lanciata dal Papa intensificarono le indagini, allora già in corso, sulla potenzialità epigenetica delle staminali tessutali di soggetti adulti e la possibilità di riprogrammare i nuclei delle cellule somatiche per riportarle ad uno stato di pluripotenzialità non attraverso la clonazione, ma bensì trattandole con uno o più fattori che agiscono sulla trascrizione del Dna nei primi stadi dello sviluppo. Nel 2006, impiegando una combinazione di quattro di essi (chiamati Myc, Oct3/4, Sox2 e Klf4), uno dei due laureati Nobel per la Medicina di quest’anno, il giapponese Shinya Yamanaka, e il suo collaboratore Kazutoshi Takahashi riuscirono a trasformare delle cellule differenziate del tessuto connettivo, i fibroblasti, in staminali pluripotenti, capaci di dare origine a numerose, diverse linee cellulari. Le sorprendenti proprietà epigenetiche di queste cellule "ringiovanite", simili a quelle isolabili dagli embrioni, hanno rivoluzionato il vecchio paradigma deterministico della biologia dello sviluppo e aperto una nuova via verso la terapia cellulare, in larga parte ancora da esplorare e verificare, ma certo meritoria del prestigioso riconoscimento dell’Accademia svedese.Nell’incontro tra scienza e fede la ragione prende le ali verso nuovi orizzonti, sempre più ampi, nei quali i limiti posti dell’etica sono l’occasione per imprese più ardite dell’intelligenza, «senza mai perdere la giusta umiltà, il senso del proprio limite – come ha detto Benedetto XVI –. In tal modo la ricerca di Dio diventa feconda per l’intelligenza, fermento di cultura, promotrice di vero umanesimo, ricerca che non si arresta alla superficie».
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