Una classe liceale - Ansa
Più di un giovane italiano su due ha scelto, per il prossimo anno, di iscriversi a un liceo al termine della terza media. Solo un terzo ha scelto invece un istituto tecnico e una quota ancora minore (il 12%) un istituto professionale. Sono dati sui quali riflettere - soprattutto se messi a confronto con l'esperienza di altri Paesi europei - anche perché possono contribuire a rimettere al centro del dibattito pubblico quello che pare da tempo essere un tema assente ossia la formazione dei giovani, i percorsi e i modi attraverso cui questa avviene e, in particolare, la complessa transizione dalla scuola lavoro che penalizza i nostri studenti nel confronto comparato.
Invero, a una prima lettura, questi dati si prestano a semplificazioni di natura opposta tra loro. Da un lato chi sosterrà che gli studenti (e le famiglie che in questa fase della vita spesso decidono per loro) sono saggi perché vanno in maggioranza verso una formazione che non si immischia con questioni tecnico-pratiche, ma che forma la persona dal punto di vista principalmente metodologico e culturale. In un percorso dove il lavoro non entra, e così non entra il mondo dell’impresa, del sindacato, i territori e tutto quello che non è saldamente serrato tra le mura dell'edificio scolastico. Dall’altro chi dirà che le famiglie sono miopi perché vanno intrapresi percorsi di studio strettamente connessi con il tessuto produttivo, pena la creazione di nuove schiere di disoccupati o comunque di precari che non riusciranno, a causa del disallineamento di competenze, a colmare i pur tanti posti di lavoro vacanti.
In mezzo a questa polarizzazione, qui volutamente estremizzata, c’è una realtà molto più variegata che spiega le buone ragioni di chi non accetta una scuola piegata alle esigenze del mercato del lavoro ma neppure come entità astratta lontana dai contesti sociali in cui i giovani saranno chiamati a vivere e con percorsi formativi chiusi in sé stessi e, come tali, privi di reale valenza educativa. Pensiamo, inoltre, agli ancora elevatissimi livelli di abbandono scolastico italiani; oppure alla frammentata diffusione dei percorsi di Istruzione e Formazione Professionale e alla realtà ambigua dei tirocini formativi, curriculari e non, che offrono certamente buone opportunità ma anche trappole e occasioni mancate.
Quello del rapporto tra educazione e lavoro è un tema troppo urgente per ridurlo a posizioni estreme o per relegarlo dentro i confini della formazione professionale, ma purtroppo pare che nel nostro Paese oltre a questo si fatichi ad andare e che fatichino a emergere le tante buone prassi che pure non mancano.
Ne è testimonianza la circostanza che, nonostante le ingenti dotazioni finanziarie in materia previste dal Pnrr, il tema dell’apprendistato scolastico non è all’ordine del giorno lasciando il campo a forme di tirocinio da attivare al termine del percorso scolastico come se la formazione e le nozioni apprese a scuola non fossero sufficienti per conquistare il diritto a un lavoro decente e remunerato il giusto.
Nel frattempo i giovani sono sempre meno e sono sempre più consapevoli del loro crescente potere contrattuale dato dalla distanza numerica tra domanda e offerta di lavoro, e lo dimostra una minor disponibilità ad accettare lavori nei quali manchino prospettive di crescita e una chiara dimensione formativa o nei quali vi siano condizioni economiche e organizzative inaccettabili. Ma allo stesso tempo è innegabile che una certa tendenza a voler escludere il lavoro dalla scuola, non concependolo anche nella sua dimensione più profondamente educativa e formativa della persona, sta indebolendo il significato o anche il valore che il lavoro stesso ha nelle prospettive di vita e di relazione dei giovani.
È davvero illusorio pensare al futuro dei giovani se prima non riscopriamo una idea forte di cosa è la formazione della persona e quali sono i percorsi dove può avvenire, anche nei termini di una esperienza di vita e non solo di una più o meno arida trasmissione delle conoscenze affidata alla sola buona volontà del corpo docente.
A preoccupare, da questo punto di vista, non sono tanto o solo i numeri, preoccupa piuttosto l’eterna contesa italiana sul rapporto tra formazione e lavoro e sulla bontà o meno del metodo della alternanza formativa a fronte di una realtà che però poi offre sistematicamente ai giovani italiani, una volta terminato il percorso scolastico, variegate offerte “formative” per l’accesso al mondo dei grandi. Come in un gioco dell’oca dove raggiunto il diploma al giovane si prospettano lunghi percorsi di tirocinio e di apprendistato post-scolastico: un ripartire da zero, insomma, come se il tempo speso sui banchi di scuola fosse stato del tutto inutile.