La radicalizzazione e l'errore di negare Dio
giovedì 5 gennaio 2017

La zona internazionale di Baghdad, ossia quella parte di città in cui sono da molti anni asserragliati gli occidentali e l’élite politica dell’Iraq, sembra ancora più tranquilla e irreale del solito. Quasi che gli attentati che ogni giorno colpiscono la città 'reale' o la battaglia che infuria contro le milizie jihadiste a Mosul avvenissero su di un altro pianeta. L’occasione per ritornare è un convegno organizzato su 'Diritti umani e libertà religiosa' dall’Università Cattolica di Milano grazie al sostegno del nostro Ministero degli Affari Esteri, con la partecipazione di importanti autorità religiose e politiche di tutte le comunità irachene; un tema quanto mai attuale nel Medio Oriente di oggi, travolto dal settarismo e dalle violenze contro le minoranze religiose.

Pur nelle differenze, la voce di tutti ha ribadito che non può esistere vera libertà dell’individuo quando la sua libertà di credere – e di testimoniare senza paura e costrizione la propria fede – viene negata. O quando le minoranze si ritrovano nell’angolo, tollerate dal potere e dalla maggioranza, ma private del vero rispetto e della possibilità di sentirsi parte del tessuto sociale pubblico. Perché è in queste situazioni che prosperano il settarismo e la radicalizzazione. In Oriente come in Occidente.

E suona forse ancora più spiazzante qui da noi, in un’Europa spaventata dai continui attentati jihadisti che la scuotono, il ribadire una verità scomoda: dinanzi alle violenze nella società compiute in nome di Dio, la risposta non è negare a Dio lo spazio nel sociale. È la strada che alcuni Stati europei hanno cercato di percorrere, con i risultati catastrofici che viviamo. Togliere il religioso dallo spazio pubblico ha offerto praterie ai movimenti radicali, indebolendo il senso di identità e di appartenenza.

Allo stesso tempo, proprio perché dilagano le violenze giustificate dalla fede, dobbiamo sforzarci – tanto all’interno quanto all’esterno di ogni gruppo religioso – di conoscere l’altro, di capirne le consuetudini e le credenze. Solo un ambizioso programma di diffusione della conoscenza reciproca e di lotta contro le interpretazioni radicali e violente può fermare nel lungo periodo questo scivolamento verso la polarizzazione delle relazioni, sia dentro l’islam (fra sciiti e sunniti), sia fra l’islam e le altre confessioni. Dire questo non significa negare l’importanza della prevenzione da parte dei sistemi di sicurezza e della repressione dura dei comportamenti criminali, ma comprendere quali siano i meccanismi che producono violenza e lavorare per indebolirli e per sviluppare narrative di contro-radicalizzazione.

Un noto ayatollah presente ai lavori sottolineava l’importanza di distinguere fra «musulmani che uccidono» e «musulmani che vengono uccisi», ricordando come la gran parte delle vittime della follia jihadista siano musulmani, in particolare sciiti. E come vi siano Stati e movimenti che hanno pesantissime responsabilità, avendo sostenuto, finanziato e finanche armato le correnti più dogmatiche e radicali dentro l’islam. In un mondo così confuso dal punto di vista geopolitico e così intrecciato da quello economico e demografico, con comunità sempre più mescolate e meticce, vanno evitate le semplificazioni fra buoni e cattivi, fra bianco e nero: la realtà è molto più complessa, per quanto dispiaccia ai populisti e ai predicatori di violenza.

Ma questa complessità non nasconde che è soprattutto l’islam – e in particolare le sue autorità religiose – ad avere un compito per i prossimi decenni, che è quello di lavorare per riformare certe interpretazioni consolidate che favoriscono il dogmatismo, per arrivare a ribadire quanto a noi è già chiaro (ma anche noi ci siamo arrivati dopo secoli di scontri): ossia che la violenza in nome di Dio suona sempre bestemmia e non può essere mai giustificata. E che senza vera libertà religiosa (di credere come di non credere o di credere qualcosa d’altro), non vi può essere vera coesistenza fra le comunità.

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