giovedì 5 aprile 2012
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Il 3 aprile, il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, ha pubblicato un editoriale intitolato «Quel romanzo e la ferita aperta nel Paese», a proposito del film di Giordana Romanzo di una strage. Non ho nulla da dire sul merito dell’articolo e sulle buone ragioni di Mauro: a cominciare da quelle sulla tesi della doppia bomba, fatta propria invece da Giordana sulla scorta d’un libro di Cucchiarelli, ma smentita dalle ricostruzioni giudiziarie, tesi su cui del resto Sofri ha scritto un lungo e puntuale articolo sul Foglio.Non posso dire lo stesso sul metodo di Mauro: le cui premesse, diciamo così filosofiche – di filosofia del giornalismo – mi hanno riportato, non senza turbamento, al 1978, a quegli infuocati e feroci interventi che Scalfari dedicò all’Affaire Moro di Sciascia: anche lì, pur se in modi che toccavano la denigrazione, si parlava della letteratura e dei suoi rapporti con la storia civile di questo Paese. Ma torniamo a Mauro, il quale non ha dubbi: «Il fatto è che non si può fare un romanzo su una ferita aperta nel Paese». Per poi aggiungere: «Al romanzo – che per forza di cose ha una sua necessità narrativa, nutrita dalla realtà ma anche autonoma, quando serve, e deve riannodare tutti i fili di una vicenda complessa nel capitolo finale – si contrappone il bisogno di verità». Lasciamo stare la notazione sul finale dei romanzi in cui tutti i fili si devono riannodare.Accadrà così, forse, nei gialli di intrattenimento politicamente corretto di Camilleri: vero è, infatti, il contrario, e cioè che nella grande storia del romanzo novecentesco i conti, proprio nel finale, non tornano mai, come di fatto è avvenuto nella storia d’Italia di questi ultimi quarant’anni. Il punto che inquieta è, però, un altro: che romanzo e verità («il bisogno di verità») non solo non si appartengano per Mauro ma, addirittura, si contrappongano e si neghino. Che è poi, pur con molta più misura, quel che Scalfari rimproverava a Sciascia: di fare appunto mera letteratura, e cioè qualcosa che non ha alcun rapporto con la verità, ma solo con le mistificazioni della fantasia. Memorabile, si ricorderà, la risposta che Sciascia in anticipo dà nell’Affaire Moro ai futuri detrattori, rovesciando il senso di quel rapporto, e consegnando la verità alla sola letteratura: «Lasciata (…) alla letteratura la verità, la verità – quando dura e tragica apparve nello spazio quotidiano e non fu più possibile ignorarla o travisarla – sembrò generata dalla letteratura».Sarebbe grave dimenticare come andarono poi le cose: e che su Moro, sull’autenticità delle sue lettere di prigioniero, Sciascia, contro tutti, ebbe ragione su tutto. Non voglio dire che le verità della letteratura – rispetto a quelle della cronaca e delle sentenze giudiziarie – siano superiori, ma solo ricordare che dalla letteratura sono arrivati spesso avvertimenti che abbiamo avuto il torto di non prendere sul serio. Ne scelgo solo uno, ricavato da I Vicerè di De Roberto: «L’Italia è fatta, ora facciamo gli affari nostri». Si era solo nel 1894.
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