venerdì 12 febbraio 2016
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Crossroads in un incrocio rivelatore. Quello che conta soprattutto è trovarsi. Parlarsi vis-a-vis. E andare avanti. Amicizia trasparente e servizio comune. È la scommessa della nuova pagina nei rapporti tra la Chiesa ortodossa russa e la Chiesa cattolica che si apre oggi nella sala d’attesa di un aeroporto sotto il sole dei tropici. È la fine della diffidenza e il colpo d’ala a ciò che da qui in futuro potrà scaturire nel segno della fraternità e dell’«ecumenismo del sangue», dove «l’unità è superiore al conflitto» e la questione delle sofferenze dei cristiani, della pace e della riconciliazione appaiono in primo piano in questo storico incontro tra il patriarca russo Kirill e papa Francesco a Cuba. Per il metropolita Hilarion è stata proprio l’emergenza della difficile situazione dei cristiani creatasi oggi in Medio Oriente, in Africa settentrionale e centrale e in altre regioni del mondo, a dettare l’agenda. Da qui l’urgenza di una più stretta interazione tra le Chiese cristiane e quindi la decisione di realizzare a stretto giro un incontro da siglare con una congiunta dichiarazione, mettendo da parte antichi disaccordi, ostacoli di natura ecclesiale. Il concilio dei vescovi della Chiesa ortodossa russa, conclusosi a Mosca il 3 febbraio, aveva del resto esortato a fare del 2016 un anno di particolare impiego in questa direzione. Ma l’incontro non può essere rinchiuso e snaturato nelle posture strategiche di alta politica ecclesiastica. Né è da considerarsi un prodromico serramento di fila per stabilire ipotetiche 'sante alleanze' in sinergia con l’agenda mediorentale di Putin. Spinte dalle urgenze e dalle complesse sfide del mondo globale, dall’emergenza della pace e della rispettosa convivenza religiosa e civile le Chiese entrano oggi, con questo incontro non formale, in una stagione di sostanziale riavvicinamento. E se la stretta da parte di Kirill accettata da Francesco appare nell’attuale contesto coraggiosa, considerata la difficoltà rappresentata dai recenti sviluppi in Ucraina e il relativo problema dell’uniatismo (principale nodo nelle relazioni tra le due Chiese e ostacolo alla realizzazione dell’incontro dei loro Primati), tanto più appare significativa se si considerano il lungo tempo di gestazione e il luogo odierno di realizzazione nell’'isola ponte'. Se è vero infatti che già negli anni 1996-1997 si sono tenuti intensi negoziati, poi svaniti, sulla organizzazione di un incontro del patriarca Alessio II con Giovanni Paolo II in Austria, è anche vero che da parte ortodossa non si voleva che l’incontro si svolgesse in Europa, dal momento che all’Europa è legata la pesante storia delle divisioni e dei conflitti tra cristiani. «Un mondo nuovo per una nuova stagione di rapporti» ha dichiarato il russo Hilarion. Superato così da parte del patriarcato di Mosca il timore del 'proselitismo' cattolico in Russia e archiviato anche il timore di quello che chiamano 'il metodo dell’uniatismo', in particolare in Ucraina, le auspicate condizioni necessarie le ha date papa Francesco: non mettendo condizioni. Facendo sapere al patriarca Kyrill: «Io vengo. Tu mi chiami e io vengo, dove vuoi, quando vuoi», come dichiarava già il 24 novembre 2014 ai giornalisti durante il volo che lo riportava a Roma da Istanbul. E proprio da qui si legge la prospettiva di questo incontro da parte di Papa Francesco. Egli ha aderito alle proposte che arrivavano da Mosca anche riguardo al luogo e alla modalità dell’incontro, come anche ai contenuti della dichiarazione comune che sarà sottoscritta dai due. Ma soprattutto egli ha aderito alla volontà dello Spirito di ristabilire quella comunione fraterna che è il grande segno che caratterizza i discepoli di Cristo. Papa Francesco ha ripetuto in più occasioni con parole inequivocabili quali sono le attese che lo animano rispetto ai fratelli delle Chiese ortodosse. Il 30 novembre 2014, in Turchia al Patriarca ecumenico Bartolomeo, disse che per giungere alla piena unità con i cristiani ortodossi la Chiesa cattolica «non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune». Nel messaggio inviato al Patriarca ecumenico per la festa patronale di Sant’Andrea, il Papa ha ripetuto che tra cattolici e ortodossi «non vi è più nessun ostacolo alla comunione eucaristica che non possa essere superato attraverso la preghiera, la purificazione dei cuori, il dialogo e l’affermazione della verità». In una visione incentrata soprattutto sulla realtà dell’«ecumenismo in cammino», sono parole e incontri all’insegna del coraggio e della speranza, della pazienza e del sentire comune, che hanno fin qui segnato l’iter di Francesco con le diverse Chiese dei battezzati in Cristo. Mostrando come egli aveva annunciato e promesso all’inizio del suo pontificato, che l’impegno ecumenico fa parte delle priorità del suo ministero e come questo cammino trova sviluppo seguendo il Concilio Vaticano II. Con il quale l’ecumenismo, movimento irreversibile della Chiesa, ha smesso di essere mera diplomazia, strategia o adempimento forzato per trasformarsi, nell’orizzonte ecclesiale, in cammino essenziale, obbligo di ogni cristiano e «via imprescindibile dell’evangelizzazione». Nel multiforme mondo contemporaneo, cattolici e ortodossi sono chiamati a collaborare fraternamente nell’annuncio della Buona Novella della salvezza «perché il mondo creda». E, quindi, insieme con la missione universale, sua gemella, è il cantiere futuro della Chiesa. Quello che si svolge dunque oggi a Cuba è un incontro di concordia non in opposizione a nemici esterni, ma frutto di «una comune conversione al Signore della pace e dell’unità», secondo quanto afferma l’Unitatis redintegratio, al numero 8. Da cui scaturisce l’ecumenismo spirituale e quella sua forma particolare chiamata da Papa Francesco «ecumenismo del sangue». Con tale definizione, egli si riferisce alla tragica realtà presentataci dal mondo odierno, in cui moltissimi cristiani sono vittima di massicce persecuzioni e le comunità cristiane sono diventate Chiese di martiri. Il martirio è ecumenico. Nell’«ecumenismo del sangue» Papa Francesco vede il fulcro centrale di ogni sforzo ecumenico teso alla ricomposizione dell’unità della Chiesa. Poiché la sofferenza di tanti cristiani, siano essi cattolici, ortodossi o protestanti, costituisce un’esperienza comune più forte delle differenze che ancora dividono le Chiese cristiane. Il martirio comune dei cristiani è oggi «il segno più convincente» dell’ecumenismo come ha affermato nel discorso al Global Christian Forum, il 1 novembre 2015 riprendendo Giovanni Paolo II. E come la Chiesa primitiva era convinta che il sangue dei martiri fosse seme di nuovi cristiani, così il sangue dei martiri del nostro tempo si rivela seme di piena unità ecumenica del Corpo di Cristo. Perché nel sangue dei martiri siamo già una cosa sola.
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