martedì 10 febbraio 2015
Finisce l'era del «super-ciclo», con ricadute politiche. Economie basate sulle esportazioni condannano ora Venezuela, Argentina e Brasile a nuove difficoltà sociali. (Lucia Capuzzi)
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Più che una fotografia a colori è un ritratto virato seppia. Con diverse gradazioni di grigio e qualche beige. La locomotiva America Latina viaggia a velocità minima e l’ultimo rapporto della Commissione economica Onu per la regione (Cepal), seppur a malincuore, ne prende atto. Nel 2014, la regione è cresciuta dell’1,1 per cento, il record negativo dal 2002. Nemmeno dopo la crisi mondiale del 2008 era stata così modesta. Nei prossimi mesi, il recupero – se ci sarà – si prospetta modesto, con un incremento medio massimo del 2 per cento. La performance mediocre, intanto, ha bloccato la riduzione della povertà, costante nell’ultimo decennio: gli indigenti sono rimasti 167 milioni, come nel 2012, il 28 per cento della popolazione totale. A preoccupare, poi, è l’aumento, all’interno di tale categoria sociale, della povertà estrema, arrivata a quota 71 milioni. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, nell’ultimo anno, sono stati generati un milione di impieghi in meno. E nel 2015, se ne perderanno altri 500mila. La disoccupazione – che colpisce 15 milioni di persone solo nelle aree urbane – rischia di crescere ulteriormente. Mentre l’economia sommersa si espande: quasi la metà della popolazione sopravvive grazie al lavoro nero.  In una parola, è finita 'l’era del super-ciclo' ovvero il boom dei prezzi delle materie prime, petrolio in testa. Il greggio ha più che dimezzato il proprio valore sul mercato internazionale, passando da 100 a 40 dollari a barile. La soia è scesa del 43 per cento rispetto al record del 2012 e del 27 rispetto a un anno fa, il ferro ha dimezzato il suo valore in un anno, il rame è calato del 18. Il valore delle risorse primarie – energetiche, alimentari, minerali – è in progressivo declino: nell’ultimo anno è sceso del 10 per cento, il doppio rispetto al 2013. Un inconveniente non da poco per l’economia latinoamericana che dipende per il 74 per cento dall’esportazione di materie prime o commodities. In Venezuela, Ecuador e Cile tale connessione raggiunge addirittura il 90 per cento.  Perfino il 'Brasile del miracolo' resta legato a doppio filo all’export, da cui deriva il 54 per cento del prodotto. Se alla riduzione si somma la contrazione della domanda cinese, principale acquirente, il quadro si fa allarmante. Un problema non nuovo.  L’America Latina fa i conti con le oscillazioni dei prezzi nel mercato mondiale fin dai tempi della Colonia. Dovrebbe, dunque, aver imparato a farvi fronte. Eppure la tentazione di farsi prendere la mano dall’abbondanza di materie prime resta forte.   Già nel 2012 – in piena corsa al rialzo –, il Banco interamericano per lo sviluppo esortava il Continente a non 'adagiarsi sugli allori'. Per l’America Latina si profila un’epoca 'dei sentieri che si biforcano', scriveva in uno studio, dal titolo volutamente 'borgesiano'. Le disponibilità di materie – come dimostra la storia – può diventare una maledizione per il sistema economico se quest’ultimo se ne fa 'assoggettare', abbandonandosi all’euforia per i prezzi in perenne ascesa. E non utilizza il surplus per realizzare investimenti e riforme, in grado di generare posti di lavoro degni e ridurre povertà strutturale e diseguaglianza. Esempi emblematici di assuefazione ai facili guadagni da 'commodities' sono Venezuela e Argentina. Per entrambi, seppur con differente intensità, scoppiata la bolla dei prezzi, si prospetta un presente burrascoso. Caracas è la preoccupazione principale degli economisti mondiali. La nazione è tecnicamente in recessione con la caduta del Pil negli ultimi tre trimestri consecutivi. E l’inflazione lievita: in un anno ha raggiunto il livello senza precedenti del 64 per cento. Più dei dati, però, rivelano le strade del Venezuela. Affollate fin dalle prime luci del mattino di gente intenta a far la fila di fronte ai negozi ancora chiusi. La spesa è diventata un’agonia quotidiana.  Sugli scaffali manca tutto: dall’olio al sapone, dal latte alla carta igienica. Per evitare 'inutili allarmismi', una catena di supermercati di proibire ai clienti di immortalare le mensole vuote. Il famoso fotografo Alejandro Cegarra è stato ripreso dalla Guardia nazionale per alcuni scatti delle persone in coda. Ma negare la realtà, perfino per il fantasioso presidente Nicolás Maduro, diventa ogni giorno più difficile. Specie dopo l’inutile pellegrinaggio in Cina, Russia e Arabia Saudita in cerca di prestiti.   L'esecutivo parla di guerra economica e ingordigia degli imprenditori che preferiscono non vendere a prezzi calmierati e contrabbandare le merci nella vicina Colombia. Gli esperti puntano il dito sul sistema di controllo dei dollari, imposto dal 2003: è lo Stato a distribuirli alle aziende. La riduzione dei biglietti verdi in entrata – per il calo del prezzo del petrolio – non riesce più a coprire la corruzione diffusa che, secondo cifre ufficiali, avrebbe bruciato 25 miliardi di dollari. La penuria generalizzata spiega perché la recente scomparsa delle patatine fritte dal menù venezuelano di McDonald’s abbia provocato un’esplosione di rabbia nelle reti sociali. La catena lo ha motivato con un problema di distribuzione. L’opposizione ne ha fatto l’emblema delle indubbie ristrettezze. E il governo ha dovuto emettere un comunicato sulla vicenda.  L’Argentina non è a questo punto. Il 'finale di partita' dell’era Kirchner – a ottobre ci saranno le presidenziali e la attuale leader non potrà ripresentarsi – è, comunque, alquanto faticoso. Tra il 2003 e il 2011, il Paese è cresciuto in media del 7,5 per cento. Poi la frenata del 2012 con lo 0,9. E ora l’assestamento intorno al 3. Insufficiente per far fronte a un’inflazione intorno al 40 per cento, nonostante l’esecutivo si ostini a dichiararne la metà. È guerra di cifre anche sulla povertà: 5 per cento secondo il kirchnersimo, 25 per varie organizzazioni indipendenti, 27,5 per l’Università Cattolica argentina.   Il fatto è che Argentina e Venezuela – ma in misura minore l’intero Continente – «non hanno saputo approfittare del decennio di 'vacche grasse'», spiega Elizabeth Tinoco, direttrice regionale dell’Organizzazione internazionale del Lavoro.  «L’esportazione di materie prime è un elemento importante delle nostre economie, ma non deve diventare l’unico. Occorre diversificare. Reinvestendo i proventi per creare sviluppo», afferma. Da tale capacità dipendono le prospettive per i diversi Paesi, con Brasile – nonostante la recessione tecnica – e Cile in cima alla lista dei 'virtuosi'. In questo panorama, la Colombia rappresenta un’eccezione con una crescita record per il 2015 intorno al 5 per cento.  Mentre il Messico resta un’incognita: le riforme dell’ultimo anno hanno cercato di attrarre capitali stranieri. Sull’effettivo arrivo di questi ultimi pesa, però, come un macigno il dramma della narcoviolenza e della crescente insicurezza. In ogni Paese e per il Continente nel suo insieme le variabili in gioco sono tante. Decifrare lo scenario latinoamericano è complesso. Anche perché le scelte politiche di breve e lungo periodo avranno un ruolo determinante nello stabilire in che direzione – per parafrasare ancora Borges – i sentieri si biforcheranno.
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