Sovranisti vincenti in Italia, non nella Ue
martedì 28 maggio 2019

Abbiamo votato e abbiamo deciso. Lo hanno fatto anche i milioni di concittadini disorientati, disamorati e delusi che hanno scelto di non andare alle urne. In Italia, non erano mai stati così tanti: il 43,9%. E il segnale è lancinante. Certo, ogni famiglia politica e ogni formazione partitica correva per sé in queste euro-elezioni 2019, secondo lo spirito proporzionalista che governa i meccanismi elettorali della Ue, ma i risultati sono netti e non equivocabili. In Europa hanno vinto gli europeisti, con una massa di consensi cospicua e mai prima così variegata. In Italia, invece, hanno prevalso i sovranisti, con uno schieramento forse mai come stavolta omogeneo: la Lega di Matteo Salvini e i Fratelli d’Italia, infatti, valgono assieme quel fatidico 41% dei consensi che cinque anni fa confermò in modo spettacolare la "presa di potere" di un altro Matteo (Renzi) sul Pd, sul governo e sulla politica nostrana. Ma quei due esiti opposti – la limpida vittoria complessiva degli europeisti, l’evidente vittoria sovranista in casa nostra – fanno anche capire quanto grande sia oggi la distanza tra Roma e Strasburgo-Bruxelles e quanto complicato e rischioso sia il cammino che ci sta davanti.

I voti parlano dunque chiaro, e c’è poco da giochicchiare coi numeri. Ecco dei dati in cifra assoluta rispetto al voto del 4 marzo 2018 che descrivono persino meglio delle percentuali (che pure sono importanti) quanto accaduto e la forza attuale dei partiti che invieranno parlamentari a Strasburgo e che in Italia si preparano a una difficile e incertissima partita politica: Lega: 34,3% - più 3 milioni e 483mila voti; Fratelli d’Italia: 6,5% - più 297mila voti; Forza Italia: 8,8 - meno 2 milioni e 245mila voti; M5s: 17,1% - meno 6 milioni e 164mila voti; Pd: 22,7% - meno 111mila voti.

Il clamoroso crollo del M5s e l’illusione ottica della risalita del Pd (c’è in percentuale, ma non nei consensi che – nonostante gli innesti di forze nuove, vicine e alleate – non crescono, anzi flettono lievemente) si commentano quasi da soli. Così come il fatto che gli unici, nel nostro Paese, ad aver richiamato nuovi elettori sono Lega e Fdi, due partiti – ricordiamolo di nuovo – dichiaratamente sovranisti, e sostenitori assoluti della "flat tax" (la tassazione piatta, cioè non più progressiva), fautori della realtà aumentata di una sicurezza affidata anche alla difesa fai-da-te dei cittadini, votati con nettezza tutt’altro che esente da asprezza alla chiusura del nostro sistema socio-economico all’immigrazione e favorevoli (per ora ancora sulla carta) a politiche a sostegno della natalità italiana.

Ed è evidente che a stravincere è stavolta la Lega, diventata la magna pars di un centrodestra che esiste ancora, ma con connotati assai diversi. Per la rappresentanza che esprime, più ancora che per i suoi elettori, sembra ormai più giusto chiamarlo "destracentro". Ed è questo destracentro che inanella non solo una serie di vittorie alle amministrative ma, soprattutto, può vantare la conquista della regione Piemonte. Un evento politico che completa la "presa del Nord" da parte della coalizione imperniata sull’antica forza secessionista, che Salvini ha lanciato in quella che, con lessico da mercati finanziari, si potrebbe definire un’Opa (una scalata tramite acquisizione di quote) sull’Italia intera.

Già, Salvini. È lui ad aver vinto più di tutti il 26 maggio, prosciugando alleati di ieri (Forza Italia, dimezzata in termini di voti assoluti, nonostante il rientro in lizza di Silvio Berlusconi) e alleati di oggi (M5s, che oggi varrebbe la metà della Lega, pur pesando ancora il doppio in Parlamento). Il segretario-ministro-vicepremier, il capitano come lo chiamano i suoi, ora ha in mano due "monete" assai speciali, molto importanti e difficili da spendere.
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La prima moneta è quella europea. Pesa più di prima o forse no. Perché sarà duro spenderla bene. Oggi Salvini è lontano anni luce dalle forze europeiste egemoni (popolari, socialdemocratici, liberaldemocratici e verdi). Ed è collegato a formazioni e capipartito che davanti a sregolatezze e debolezze altrui sono persino più 'rigoristi' dei guardiani dei conti pubblici degli Stati che siedono a Bruxelles. Collocazione analoga, e ben più debole, è quella del M5s. Il vaticinio secondo cui il 26 maggio nella Ue avrebbero 'comandato' Salvini e i suoi alleati è finito in fumo. Per questo servirebbe un cambio di strategia, o almeno di attitudine tattica, per non spingere l’Italia, dopo un anno a dir poco deludente, ancor più ai margini del gran gioco politico nell’Unione.

Dove contano gli Stati, ma anche le famiglie politiche di appartenenza e, in ogni caso la capacità di interlocuzione e i rapporti di rispetto e di fiducia reciproca tra leader. Qui si parla di qualificanti e affidabili scelte politiche di medio-lungo periodo, non di slogan e misure acchiappavoti. Ma il vincitore di maggio vede la necessità di farlo e, se sì, ne sarà capace? La seconda moneta è quella italiana. Il vincitore Salvini si mostra deciso a spenderla per rafforzare l’azione di governo, ma nella direzione da lui preferita. Esattamente come fa lo sconfitto di Di Maio.

Che ha spinto per realizzare a debito una Manovra 2019 che porta il marchio del Reddito di cittadinanza e che non sembra molto disposto a far fare una Manovra 2020 altrettanto (e più) squilibrata e all’insegna della flat tax. La moneta in mano al leader della Lega è dunque pesante, e verrà certamente spesa. Vedremo presto se per comprare più governo o più crisi. Di governo, e non solo.

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