sabato 10 giugno 2023
Un lettore si dice convinto che il lavoratore abbia comunque poca scelta e il sistema delle imprese non sia riformabile. Ma non possiamo arrenderci a questa idea
«Lavoro, l'offerta è sempre al ribasso». Scegliendo si può cambiare
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Caro direttore,

leggo con interesse la risposta di Francesco Riccardi a Davide su “Avvenire” del 27 maggio. Leggo e mi cadono le braccia. Non per incompatibilità generazionale o per disaccordo nel merito: al contrario, mi ritrovo, pur con riserva, nella sostanza della sua risposta – «l’ipotesi del non lavorare... la trovo pericolosamente limitante anzitutto per sé stessi» – purché il concetto di lavoro venga inteso gramscianamente: qualsiasi attività che comporti dedizione e concentrazione. I dolori per quanto mi riguarda cominciano con le argomentazioni che Riccardi porta a sostegno della sua affermazione. Premessa: ho 38 anni e – considerato il Paese di dinosauri in cui vivo – penso di dovermi considerare ancora giovane, anche se ho iniziato a lavorare a 16 anni cambiando molte aziende, laureandomi, conseguendo un dottorato di ricerca in scienze umane (…). Riccardi scrive che l’ipotesi di non-lavorare è pericolosa «soprattutto oggi che – come profetizzava qualche anno fa un libro del giuslavorista Pietro Ichino – siamo entrati nell’era in cui è il lavoratore, grazie alle sue competenze, a poter scegliere l’impresa in cui prestare la propria opera, selezionandola in base alle condizioni offerte e capacità di coinvolgimento».

Ora, a parte il fatto che riprendere Ichino per spiegare il mercato del lavoro contemporaneo, è un po’ come servirsi della “Politica” di Aristotele per venire a capo del capitalismo finanziario, Riccardi omette di dire che se su quasi tutti i fronti l’offerta è al ribasso, non si può parlare di vera e propria scelta. Negli ultimi 20 anni ho lavorato in diversi settori e posso garantire a Riccardi che il quadro idillico che richiamandosi ad Ichino lui fornisce, è totalmente fuori della realtà per la maggior parte dei lavoratori, compresi quelli qualificati.

Mi stupisce che proprio un giornalista di “Avvenire” lo ignori. Quanto al “potere di scelta” di cui sopra, e di cui il lavoratore medio disporrebbe, potere a suo dire in grado di «costringere le stesse imprese e il sistema economico ad evolvere», non mi pronuncio neppure: chiunque abbia avuto la ventura di attraversare numerose esperienze lavorative, sa che c’è una miriade di situazioni in cui come lavoratore si trova invischiato e che è costretto a subire, finché rimane sul posto; che egli, certo, può andarsene cercando di meglio (io stesso l’ho fatto più volte, e non me ne sono mai pentito), ma resta il fatto che questa opzione incide sulla sua vita di privato cittadino, non sul sistema economico in cui come lavoratore si trova ad operare in qualità di ingranaggio: e che di conseguenza il sistema economico suddetto non è sostanzialmente riformabile. Diverso invece è il caso – qui sono d’accordo con Riccardi – delle nostre scelte di consumatori: qui come individui è forse possibile fare la differenza anche su grande scala. Ma se si lavora, e si lavora in ambienti da schifo alle prese con lavori pesanti per sopravvivere, è tutta un’altra storia: i tanti schiavi che ci sono in giro (e di cui nessuno parla, neppure i giornali) lo sanno; e la loro disperazione viene dritta dritta da questo sentimento d’impotenza. Non si prenda questa mia come un j’accuse rancoroso, o come una sfuriata gonfia di malevolenza: stimo voi giornalisti di “Avvenire”, dal primo all’ultimo (...). Solo mi piacerebbe, su temi sensibili come il lavoro, un po’ più di esperienza sul campo fra i subalterni, che poi sono gli ambienti maggioritari; in caso contrario si finisce per dispensare speranze vane e illusioni a buon mercato. Cordiali saluti

Luca Peloso, Verona

Gentile signor Peloso, mi spiace le siano «cadute le braccia» leggendo la mia risposta al lettore Davide, nonostante si dica d’accordo sulla tesi di fondo e lei stesso, come racconta nella sua lunga lettera che abbiamo dovuto dimezzare, abbia più volte nel corso della sua vita professionale esercitato il potere di scelta cambiando azienda, settore e tipologia di lavoro. È esattamente ciò che argomentavo nella mia risposta che – era lo spunto di partenza – riguardava i lavoratori qualificati con competenze nelle materie Stem (scienza, tecnologia, economia e matematica), non tutti i dipendenti in generale. Come lei stesso riconosce, su “Avvenire” dedichiamo molta attenzione ai temi sociali e fra questi al lavoro. Lo fanno molto bene i miei colleghi e, personalmente, me ne occupo dal 1989, il tempo di noi “dinosauri”, ma credo d’aver ancora ben presenti le mille sfaccettature di questo mercato, le difficoltà che incontrano oggi tantissimi giovani, quanto difficile sia il loro percorso di ingresso, stabilizzazione e crescita nelle imprese, lo sfruttamento che colpisce le figure più deboli, l’arretratezza di buona parte delle aziende italiane. Lo scrivevo proprio nella premessa della mia risposta. Ma se ha tempo, rilegga a questo proposito l’editoriale che ho scritto in vista del 1° Maggio o quelli sul caporalato dei grandi gruppi internazionali della logistica che non trova su altri quotidiani.

Questo per dire che la complessità non ci sfugge, ma all’interno di questa, ci sono anche margini di “potere” maggiore per alcune figure qualificate e, resto convinto, per il cambiamento delle imprese e del sistema stesso. Lo dimostrano innanzitutto i 2,2 milioni di dimissioni volontarie registrate lo scorso anno – persone che hanno cambiato azienda per migliorare la propria condizione sotto diversi aspetti – o i 120mila che sono andati all’estero dove trovano migliore accoglienza. I giovani sono numericamente sempre di meno, quelli qualificati in numero davvero esiguo rispetto alla richiesta delle imprese: fosse solo per il meccanismo di domanda/offerta, avranno maggiore potere di scelta tra diverse opzioni e le aziende, se vorranno assicurarsi personale adeguato, saranno costrette a migliorare le condizioni di offerta, in termini di stipendi più adeguati, orari, lavoro da remoto, welfare aziendale, magari contributi per l’affitto nelle grandi città. Il «sistema non è sostanzialmente riformabile », lei dice. Io non lo credo.

E, proprio perché vogliamo combattere le situazioni di sfruttamento e contribuire all’evoluzione del sistema, non possiamo arrenderci. Chi ha maggiori competenze deve essere il primo a esercitare il potere di cui dispone: “scegliere con le gambe”, lasciando i posti tossici e andando da chi comprende che la persona è centrale e agisce di conseguenza. Sostenere e promuovere modelli di economia civile, di sviluppo del Terzo settore, premiare le società benefit e, in generale, chi promuove la partecipazione dei lavoratori e la sostenibilità sociale. Le aziende non in grado di evolvere falliranno. E a noi, spero, resteranno le braccia ben attaccate al tronco. Ricambio i cordiali saluti.

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