Con l’inizio di settembre riparte il dibattito politico in vista della Legge di Bilancio per il 2019, prova fondamentale di tenuta e di responsabilità per il governo Conte e per i suoi ministri chiave. Ci sarà modo di valutare le singole proposte quando prenderanno forma. In questa fase può essere invece importante sviluppare una riflessione su quello che ad oggi, e ormai da troppo tempo, manca nella riflessione italiana sul mercato del lavoro.
L’Eurostat ha diffuso nei giorni scorsi alcuni dati interessanti sulle imprese e l’innovazione nei diversi Paesi europei utili per comprendere alcuni dei nodi centrali e non affrontati. L’Italia ha un numero di occupati in industrie ad alto livello tecnologico, e in imprese che si occupano di servizi knowledge-intensive, inferiore di 5 punti rispetto alla media europea e di 10 punti rispetto alla Germania.
Un dato che sembra marginale e che tuttavia permette di evidenziare almeno due tematiche che oggi è difficile ritrovare nel dibattito politico pubblico e che ci riportano ad affrontare lo sviluppo italiano in una prospettiva di medio e lungo periodo. Il primo nodo è quello della produttività. Pochi occupati in imprese innovative significa anche e soprattutto poche imprese innovative che sono poi quelle che anche indirettamente, grazie all’indotto, generano maggiore occupazione.
Questo non vuol dire negare le eccellenze che pure non mancano, ma ricordarci che sono proprio la poca ricerca e la scarsa valorizzazione del capitale umano a determinare la bassa produttività del lavoro nel nostro Paese. Da questo punto di vista occorrerebbe riprendere in mano il dossier Impresa 4.0, monitorando quanto accaduto dopo gli investimenti effettuati in macchinari e tecnologie di nuova generazione.
Oggi infatti la principale sfida per il nostro Paese è governare il cambiamento nella organizzazione del lavoro evitando, come già accaduto in passato, di abbracciare un determinismo tecnologico che potrebbe tradursi in occupazione minore o comunque di più bassa qualità. Il secondo nodo è quello delle competenze, delle forme di apprendimento e della professionalità. Negli ultimi mesi si è discusso molto di tipologie contrattuali e di norme sul lavoro, parlando poco o nulla di quella che sembra essere la nuova tutele nel mercato del lavoro contemporaneo: la possibilità di una adeguata e mirata formazione professionale.
Senza una riflessione approfondita su esigenze, strumenti e metodi per questa professionalità 4.0, rischiamo di rimanere bloccati in una visione idilliaca della formazione che consiste nel promettere ai nostri studenti e a qualunque lavoratore che basti qualche corso di formazione per trovare o ritrovare un lavoro o per gestire da protagonisti le sempre più frequenti transizioni occupazionali che caratterizzano i percorsi di carriera.
Purtroppo non è così. Tanto per i giovani, che hanno bisogno di percorsi di qualità come l’apprendistato e di reali offerte formative in tirocinio e alternanza (che è obbligatoria da poco tempo e presenta ancora numerosi aspetti da migliorare), quanto per i lavoratori ormai maturi, che necessitano di un percorso lungo e complesso per trovare spazio nelle imprese innovative che oggi consentono buoni salari e buoni lavori.
Anche in questo caso occorrerebbe monitorare, ripensare e rilanciare, in raccordo con le parti sociali e i fondi interprofessionali, il credito d’imposta per la formazione 4.0 per renderlo strumento strutturale. Due temi, la produttività e l’apprendimento, sui quali si gioca il futuro del Paese e che possono, in una visione di medio e lungo periodo oggi poco di moda, fornire proprio quelle risposte che le persone chiedono senza scorciatoie spesso impraticabili. Rimettere al centro il lavoro significa infatti rimettere al centro la persona e, con essa, una visione del futuro che riguarda la vita di tutti, dai più giovani ai più maturi, in un momento storico di passaggio nel quale il pericolo più sentito è quello di essere lasciati soli.