giovedì 18 luglio 2019
Proteggere l’identità dei popoli indigeni e l’ecosistema del loro territorio L’impegno della Chiesa con le comunità una sfida di giustizia e di speranza
Papa Francesco incontra una rappresentanza di indigeni a Puerto Maldonado, Perù, nel gennaio 2018

Papa Francesco incontra una rappresentanza di indigeni a Puerto Maldonado, Perù, nel gennaio 2018

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Rivolgendosi ai popoli indigeni amazzonici, papa Francesco ha detto loro: «La Chiesa non è aliena dalla vostra problematica e dalla vostra vita, non vuole essere estranea al vostro modo di vivere e di organizzarvi. Abbiamo bisogno che i popoli originari plasmino culturalmente le Chiese locali amazzoniche». Il Sinodo per l’Amazzonia e, più ampiamente, la missione della Chiesa in questo territorio sono di fatto espressioni di un significativo accompagnamento della vita quotidiana dei popoli e delle comunità che vi abitano. La presenza della Chiesa non può in alcun modo essere considerata una minaccia per la stabilità o la sovranità dei singoli Paesi. Anzi essa è, in realtà, un prisma che permette di identificare i punti fragili della risposta degli Stati, e delle società in quanto tali, davanti a situazioni urgenti, riguardo alle quali, indipendentemente dalla Chiesa, ci sono debiti concreti e storici che non si possono eludere. D’altra parte, l’opportunità di guardare all’identità di questi popoli e alla loro capacità di proteggere tali ecosistemi secondo il loro specifico modo culturale e la loro visione del mondo può consentire alle nostre società non amazzoniche di creare condizioni adeguate per apprezzarli, per rispettarli e per apprendere da essi. Ci auguriamo che, a partire da queste premesse, alcuni governi possano superare posizioni di sospetto e possano ascoltare con maggiore attenzione le voci flebili e gli appelli urgenti che vengono dal territorio e di cui la Chiesa vuole farsi compagna di cammino e portavoce, samaritana e profetica, come si afferma nella parte III dell’Instrumentum laboris del Sinodo.

Nel contesto dell’Amazzonia, la Chiesa, fin dal principio, è andata incontro alle culture, con luci e ombre. Seguendo il comandamento evangelico, essa accompagna il ritmo con cui procede il popolo più povero. In queste realtà si percepisce la vitalità missionaria della Chiesa in Amazzonia. Questa porzione di Pianeta è il bioma in cui si esprime la vita nella sua straordinaria diversità in quanto dono di Dio a tutti quelli che la abitano e a tutta l’umanità. Tuttavia, essa è un territorio sempre più devastato e minacciato. Secondo la dottrina sociale della Chiesa, alla missione di ogni cristiano è associato un impegno profetico per la giustizia, la pace, la dignità di ogni essere umano senza distinzione, e verso l’integrità del creato, in risposta a un modello di società predominante che produce esclusione, disuguaglianza e che provoca quella che papa Francesco ha definito una vera e propria «cultura dello scarto» e una «globalizzazione dell’indifferenza».

Oltre a essere «fonte di vita nel cuore della Chiesa» e uno dei territori di maggiore bio- diversità al mondo, questo bioma è anche il luogo in cui da secoli vivono molte culture, che attualmente vedono a rischio la propria esistenza e identità a causa del modello fortemente neo-estrattivista che oggi viene imposto. Disponendo di tutti i mezzi opportuni, della legittimità sul piano locale, regionale e internazionale, della sua prospettiva storica e in proiezione futura, la Chiesa può collaborare con tutte le istituzioni governative, con le organizzazioni della società civile e, specialmente, con i popoli stessi, nella certezza che la promozione, la difesa e l’esigibilità dei diritti umani siano nell’interesse genuino di tutti.

In tale contesto, nel settembre del 2014, è creata la Red eclesial panamazónica che ha ricevuto l’approvazione della Santa Sede con una lettera di papa Francesco, inviata tramite il card. Pietro Parolin, Segretario di Stato. In essa si afferma: «Non possiamo vivere soli, rinchiusi in noi stessi [...]. Soltanto in questo modo, grazie alla rete, la testimonianza cristiana può raggiungere le periferie esistenziali umane, permettendo al lievito cristiano di fecondare e far progredire le culture vive dell’Amazzonia e i loro valori». L’esperienza pastorale di decenni, e degli anni recenti (come la Repam), ci fa capire anche che fra i responsabili vanno compresi non soltanto quegli Stati in cui vengono sviluppate le industrie estrattive, ma anche alcune imprese straniere e i loro Stati di origine, vale a dire quelli che appoggiano o favoriscono gli investimenti estrattivi, pubblici o privati, al di fuori delle loro frontiere nazionali, approfittando della ricchezza della terra, a costo di impatti devastanti sull’ambiente amazzonico e sui suoi abitanti. La maggior parte degli Stati di questo territorio ha sottoscritto le principali convenzioni internazionali sui diritti umani e sui relativi strumenti associati ai diritti dei popoli indigeni e alla cura dell’ambiente. Pertanto siamo certi che si impegneranno a osservarle. La Chiesa desidera essere ponte e collaboratrice per raggiungere tale obiettivo, volto al bene di ciascuno dei Paesi rappresentati in questo territorio, ovvero la vita degna e piena dei popoli che vi abitano e la cura di questo ecosistema essenziale per il presente e il futuro del Pianeta.

Quanto alla risposta ferma ai cambiamenti climatici che costituiscono una crisi ecologica globale ineludibile, tutti gli Stati della conca amazzonica sono firmatari dell’Accordo di Parigi, e siamo convinti del loro impegno, con i rispettivi contributi previsti e determinati a livello nazionale. D’altra parte, data l’emergenza climatica che oggi affrontiamo, dobbiamo chiedere loro molto di più, così come l’intera società deve operare molto più efficacemente per questo fine. Il mantenimento di tale ecosistema è fondamentale per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Sul piano nazionale, alcuni Stati amazzonici hanno progressivamente inserito nelle loro Costituzioni questi stessi diritti alla consultazione previa, libera e informata, come pure hanno sviluppato standard ambientali per ridurre la deforestazione e hanno creato meccanismi per assicurare il rispetto delle riserve naturali e il riconoscimento di terre indigene per possesso ancestrale. D’altra parte, e occorre dirlo a chiare lettere, esistono seri limiti, e, in alcuni casi, mancano un impegno efficace e una volontà esplicita di attuare tali piani. Parallelamente, le popolazioni indigene contadine e altri settori popolari d’ogni Paese hanno sviluppato processi politici organizzativi incentrati su agende improntate a diritti legittimi che devono essere riconosciuti e rispettati, se ricadono nell’ambito dello spazio di diritto.

Quanto a noi, membri della Chiesa cattolica in Amazzonia, vogliamo essere testimoni vivi di speranza e di cooperazione e continuare a prestare un servizio evangelizzatore che affondi le radici nel suolo fertile dove vivono i nostri popoli amazzonici e le loro culture. In questo senso, il Sinodo, in quanto evento ecclesiale, può essere un segno importante della risposta efficace per la promozione della giustizia e la difesa della dignità delle persone più colpite. In generale crediamo che tutti – società, governi e Chiesa – possiamo fare attenzione a queste voci per assumerci in modo più consistente le nostre rispettive responsabilità, differenziate e potenzialmente complementari. Vogliamo fare nostra l’enorme sfida che ci propone papa Francesco, quando afferma: «Credo che il problema essenziale sia come conciliare il diritto allo sviluppo, compreso quello sociale e culturale, con la tutela delle caratteristiche proprie degli indigeni e dei loro territori. [...] In questo senso dovrebbe sempre prevalere il diritto al consenso previo e informato».

L’articolo di questa pagina è un estratto dell’intervento del cardinale Pedro Barreto, arcivescovo metropolita di Huancayo (Perù), pubblicato sul fascicolo 4058 di «Civiltà Cattolica» (20 luglio - 3 agosto)

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