Il picco dei decessi e le domande da porsi
giovedì 4 ottobre 2018

Il più recente bilancio demografico diffuso dall’Istat rileva come al totale dei 649mila morti registrati in Italia nel 2017 corrisponda un aumento di 34 mila casi rispetto allo stesso dato del 2016. Viene così a riproporsi un segnale di forte crescita dei decessi, simile a quello che aveva caratterizzato il 2015 e sollevato inquietanti domande circa le sue cause. Domande che non hanno mai ricevuto, almeno da parte delle fonti ufficiali, convincenti risposte. La questione del picco di mortalità torna, dunque, ad affacciarsi con un nuovo valore di massimo che, è bene ricordarlo, nell’ultimo secolo di storia nazionale è stato superato unicamente nel corso della Seconda guerra mondiale (1941-1944) oppure, risalendo nel tempo, nel lontano e "critico" 1929.

Un anno quanto mai suggestivo per evocare l’esistenza di quel legame tra malessere economico e debolezza del sistema socio-sanitario che può aiutarci a capire l’altalena della mortalità su cui rischia di adagiarsi la popolazione italiana del nostro tempo.
Innanzitutto è bene chiarire che il passaggio dai 615mila morti del 2016 ai 649mila del 2017 – così come era successo in occasione dell’analoga variazione dai 598mila del 2014 ai 648mila del 2015 – deve essere letto "anche" alla luce del continuo processo di invecchiamento della popolazione italiana. In tal senso, un semplice esercizio di calcolo mostra come, tra il 2016 e il 2017, «il solo fatto di avere una popolazione più esposta (per via dell’età) al rischio di morte» valga a spiegare l’aggiunta di ben 21mila decessi. Nulla di nuovo di cui preoccuparsi, dunque; se non fosse che, togliendo dai 34mila casi in più che si sono accertati la quota di quelli imputabili all’invecchiamento demografico, c’è pur sempre una differenza di 13mila unità.

Un numero non irrilevante – quasi uguale al totale dei milanesi morti nel 2017 – la cui giustificazione va cercata altrove: più a fondo. Possibilmente evitando di riproporre semplicistiche osservazioni su eventi climatici sfavorevoli e sindromi influenzali particolarmente aggressive. Perché se anche è vero che la stagionalità incide – e ha inciso significativamente sia nel 2015 sia nel 2017 – è del tutto legittimo attendersi che in un sistema socio-sanitario moderno ed efficiente le condizioni di rischio ambientale vadano comunque difese con azioni di prevenzione e di cura. Viceversa, scopriamo che forse le 13mila morti "da giustificare" potrebbero semplicemente rappresentare la drammatica evidenza dell’incapacità del Sistema Paese nel proteggere proprio quella componente anziana e più debole che gli scenari demografici, combinati alle persistenti difficoltà sul piano dell’economia e del welfare pubblico, prospettano come segmento in continua crescita.

Di fronte ai dati che evocano questioni irrisolte, non basta ricordare come, poi, il bilancio demografico del 2016 abbia ridimensionato la frequenza dei morti riportandoli a 615mila (circa 32 mila in meno rispetto al 2015) e sottolineare come anche per il 2018 il resoconto del primo quadrimestre stia mostrando un calo del 2,1% rispetto allo stesso periodo del 2017 (seppur con solo 5mila casi in meno). Nessuna sorpresa. È ovvio che, dopo un rialzo che ha dello straordinario, vada messo in conto quello che potremmo definire un effetto "di rimbalzo". Se ieri il terreno si è coperto di foglie secche, è difficile che anche oggi se ne abbiano tante, ma domani l’albero ne produrrà di nuove e il terreno tornerà ad accoglierle.

L’ipotetico bilancio demografico del 2018 lascia intendere, estrapolando le dinamiche note per il primo quadrimestre, un totale annuo di 636mila morti. Si tratterebbe del terzo più alto valore dal secondo dopoguerra, per altro registrato in corrispondenza di un anno che, nel "su e giù" dell’altalena della mortalità, ci illudevamo dovesse comunque posizionarsi "in basso". Ma a fronte delle molte foglie secche che sono cadute l’anno prima, ne sono forse comparse rapidamente quasi altrettante nuove?

Realisticamente va preso atto che gli scenari che delineano una tendenziale crescita della frequenza di decessi siano da accettare come qualcosa di 'naturale' – quanto meno in una popolazione che vive e vivrà un progressivo invecchiamento demografico – ma ciò che pare inaccettabile è dover assistere a continue oscillazioni, attorno alle tendenze in atto, che riflettono una dinamica selettiva in condizioni di profonda ingiustizia. Una iniqua selezione che viene subìta da chi spesso non ha mezzi per difendersi, e che infierisce sul bene più prezioso di ogni essere umano: la sua stessa vita.

In conclusione, di fronte ai segnali prodotti dalle statistiche sull’altalena della mortalità, è irrinunciabile che si faccia in modo che gli effetti della crisi, i tagli di cui sentiamo spesso parlare e che vediamo agire, senza di certo risparmiare la sanità, non si riflettano in un accrescimento del rischio di morte in corrispondenza di quei gruppi tipicamente più fragili – i vecchi e i 'grandi vecchi' più di ogni altro – che vanno via via rinnovandosi e accrescendosi. L’impegno di tutti deve essere speso affinché le scelte di governo delle risorse e il 'mito' del controllo della spesa sanitaria, importante e doveroso, siano anche ispirati a scelte eque e davvero attente ai reali bisogni di tutte le persone.

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