domenica 7 agosto 2011
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Immaginiamo d’essere al capezzale di un moribondo. L’unico che può salvargli la vita è un luminare della medicina. Questo distinto signore sfoglia l’agenda e rivolgendosi ai parenti con una sorta d’algido distacco dice che deve andare in vacanza. Al suo ritorno, tra un paio di settimane, si rifarà vivo. Nel frattempo quel poveretto potrebbe morire, ma lui, il grande clinico, si lava le mani sostenendo che le ferie sono un suo inalienabile diritto. Roba da matti, direte voi, eppure è quello che è successo giovedì scorso quando l’Unione Africana ha fatto sapere di aver rinviato al 25 agosto la Conferenza dei donatori per far fronte alla carestia e alla siccità che hanno colpito il Corno d’Africa. Il summit era stato inizialmente previsto per il 9 agosto ad Addis Abeba, ma purtroppo la data coincideva con non meglio precisati impegni istituzionali di molti leader africani. Anche se il buon senso suggeriva di non perdere tempo, la "ragion di Stato" imposta da un manipolo di capi di Stato e di governo è stata così rilevante da indurre gli organizzatori a posticipare l’appuntamento. D’accordo che in Africa le emergenze umanitarie sono ormai da lunghi decenni un fenomeno cronico, ma com’è possibile rimanere indifferenti dopo il tam-tam mediatico di questi giorni sollevato opportunamente da molti organi d’informazione? Il nostro giornale, in particolare, ha sollevato senza sosta la questione, evidenziando non solo gli effetti aberranti della calamità ma anche stigmatizzando le responsabilità di chi avrebbe potuto scongiurare una simile mattanza. Come era prevedibile, nell’ambito della società civile e soprattutto nei circoli umanitari il rinvio è stato giudicato negativamente. Una grave disattenzione da parte dei leader africani: nel Corno d’Africa sono 12 milioni le persone che rischiano la morte per inedia e pandemie. Una cosa è certa: la decisione di posticipare la conferenza è sintomatica della debolezza politica di un’intera classe dirigente rispetto alle tragedie che affliggono il continente. Detto questo, è anche vero che la crisi dei mercati internazionali sta creando non pochi problemi ai Paesi donatori, molti dei quali stanno letteralmente cancellando la spesa sociale. Fare confronti tra Nord e Sud del mondo (Paesi industrializzati e altri in via di sviluppo) è sempre fuorviante, ma se in Somalia sono 4 milioni le bocche da sfamare, negli Stati Uniti una persona su sette – 45 milioni di americani – deve ricorrere ai food stamps (i buoni pasto) per sopravvivere, e la malnutrizione infantile sta aumentando a un tasso allarmante. Viviamo in un mondo nel quale purtroppo la globalizzazione consiste essenzialmente nello scaricare su altri gli effetti della propria ingordigia, poco importa che si tratti di sfruttare le materie prime nei Paesi africani o speculare finanziariamente in Borsa, riducendo al lastrico risparmiatori e imprese medio-piccole che rappresentano il volano della cosiddetta "economia reale". Sta di fatto che l’appello lanciato domenica scorsa da Benedetto XVI durante l’Angelus, proprio nel giorno in cui veniva ricordato il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, è rimasto drammaticamente inascoltato. E dire che il messaggio del Santo Padre era diretto e inequivocabile: «È vietato essere indifferenti davanti alla tragedia degli affamati e degli assetati». Le tragedie odierne dei profughi in cerca di salvezza – o di una sopravvivenza meno miserabile – rappresentano per le nostre coscienze una forte provocazione. Usando il linguaggio dei Padri, una damnatio memoriae per non perdere tempo. Dovere delle nazioni civili e responsabili, dovere per la democrazia.
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