sabato 14 aprile 2012
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C’è l’Italia con tutti i suoi volti, i vecchi vizi e i tanti errori di prospettiva nel­la vicenda dei cosiddetti «esodati», protago­nisti ieri della manifestazione nazionale a Ro­ma. Questione emblematica sotto diversi aspet­ti, a cominciare dalla difficoltà a condividere un dato numerico univoco. Per il ministro gli ex lavoratori in attesa della pensione sono 65mila come stabilito dal decreto Millepro­roghe. Per il sindacato alcune centinaia di mi­gliaia in più, fino forse a quei 357mila ipotiz­zati nei giorni scorsi. In realtà, la differenza non sta nel calcolo, ma nella sostanza di chi abbia o meno il diritto di accedere, in dero­ga, ai vecchi requisiti previdenziali, perché non si trovi a breve senza stipendio, senza sussidi e senza pensione. Il ministro Fornero sembra voler delimitare con fermezza il cam­po a quei lavoratori che hanno sottoscritto accordi collettivi di uscita, a fronte di crisi o esuberi aziendali. Anche perché, se i calcoli approvati dal Parlamento sono giusti, per mandare in pensione questa platea di 65mi­la ex lavoratori, serviranno 5 miliardi di euro in 7 anni. Se quindi si volessero accantonare risorse per 'coprire' 357mila persone senza lavoro né pensione i miliardi di euro da stan­ziare dovrebbero diventare il quintuplo, ben 25. Proviamo, per un attimo, a pensare quale eccezionale volano di sviluppo sarebbe inve­stire una cifra simile sui giovani, sulla loro ca­pacità di creare nuove imprese o di qualificarsi maggiormente. 25 miliardi in 7 anni, qualco­sa di mai visto. Anche perché, senza voler ac­cendere l’ennesimo scontro generazionale, mai si è investito davvero sui giovani, prefe­rendo sempre la difesa dei più anziani, che so­no la maggior parte degli iscritti ai sindacati e degli elettori dei partiti. Torniamo alla realtà. Dalle diverse situazioni della platea 'allargata' degli esodati, emer­gono con plastica evidenza tante altre con­traddizioni in cui il nostro Paese resta im­merso. Se si escludono le chiusure vere e pro­prie, infatti, questi 'esodi' altro non sono che i vecchi prepensionamenti. Attraverso i qua­li le aziende scaricano sul sistema previden­ziale le operazioni di svecchiamento della ma­nodopera e di riduzione del costo del lavoro. Imprenditori che di giorno tuonano contro la spesa pubblica e per l’innalzamento dell’età pensionabile, di notte 'scaricano' i 50enni, e le proprie difficoltà, sui bilanci pubblici. E an­cora, ritroviamo vecchi vizi. Come alle Poste, dove il presidente ammette candidamente che molti lavoratori 'anziani' hanno accet­tato di andare in mobilità verso la pensione in cambio dell’assunzione dei figli. Per la so­cietà pubblica (seppure spa di diritto priva­to) il posto di lavoro resta un affare di fami­glia che si trasmette come un’eredità e con i costi di transizione a carico della collettività. Proviamo a domandarci: chi sarebbe più 'giu­sto' tutelare? Questi esodati o quelli che non hanno stretto un’intesa, non hanno avuto neanche un euro di incentivo, ma semplice­mente hanno perso il lavoro e non hanno la pensione? Potremmo chiedere anche noi 'pensione per tutti' come si è sempre fatto in passato. Ver­rebbe spontaneo chiederlo guardando ieri il volto di tanti ex lavoratori senza più certezze. Ma dovremmo farlo avendo l’onestà intellet­tuale di indicare dove reperire le risorse ne­cessarie, senza penalizzare ancora una volta le generazioni più giovani, che di certezze pre­videnziali ne hanno infinitamente meno. I partiti che lo propongono rinuncino subito al finanziamento pubblico diretto, il sistema delle imprese, all’origine del fenomeno, ac­cetti il taglio di alcune delle agevolazioni che pesano per miliardi sulle casse dello Stato. In alternativa, si metta in campo un piano di ri­collocamento al lavoro, chiamando le azien­de a contribuire. E per tutti quelli che non riu­sciranno a ritornare in attività, si preveda il pa­gamento del sussidio di disoccupazione fino al pensionamento secondo i nuovi criteri. La comunità deve sapersi far carico di ogni singola persona in difficoltà. Ma non si può continuare all’infinito a scaricare i problemi sul sistema previdenziale, arrivato a pesare per un terzo dell’intera spesa pubblica (inte­ressi sul debito esclusi). O continueremo a proteggere le certezze e le distorsioni del pas­sato, senza mai poter investire sulla crescita e il cambiamento futuro. La coperta è corta, usiamola bene.
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