giovedì 9 novembre 2023
La vicenda dell’Isola di Pasqua ci dice come le società possano scomparire o prosperare per scelte non ponderate. Il pericolo che viene dall'avidità e dall'egoismo dei singoli
Moai, giganteschi monoliti dell'Isola di Pasqua, 3.000 chilometri dalle coste del Cile

Moai, giganteschi monoliti dell'Isola di Pasqua, 3.000 chilometri dalle coste del Cile - Ansa

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Esce oggi in libreria il volume di Vittorio Pelligra, «La cura delle radici», nuovo titolo della collana “Pagine prime” edita da “Avvenire” con Vita e Pensiero. L’economista dell’università di Cagliari raccoglie e rielabora nel libro i suoi interventi sui beni comuni e il bene comune apparsi nell’allegato di “Avvenire” L’economia civile, quindicinale dedicato alle tematiche del Terzo settore, della sostenibilità e dell’ambiente. Ecco un'anticipazione.

Le radici sono ciò che rendono forte una pianta, che l’alimentano, che ne consentono la crescita e la diversificazione. Le radici sono ciò che rende l’albero uno, nonostante la molteplicità dei rami. Sono le radici che nel sottosuolo riportano all’unità il plurale e, al contempo, consentono a ogni ramo di crescere nella propria direzione. I beni comuni sono le radici delle nostre società. Spesso non si vedono, ma dalla loro qualità dipende sempre più la qualità delle nostre vite. Sono precondizione per la pluralità e al contempo definiscono la nostra identità comunitaria. I beni comuni sono vulnerabili, per questo, come le radici di un albero hanno bisogno di attenzione, vanno attivamente protetti e curati. Risulta quindi molto importante compiere un’esplorazione intorno al tema dei beni comuni, alle loro caratteristiche, alla loro varietà, all’importanza che rivestono per le nostre società, alla loro intrinseca fragilità.

Fu una vera Passione quella Settimana santa passata tra le onde, nel nulla più incerto dove finiscono le mappe e inizia l’avventura. Jakob Roggeveen era ormai anziano ed era partito per quella spedizione su incarico della Compagnia Olandese delle Indie Occidentali, lasciando in patria non poche controversie. Erano partiti otto mesi prima per un viaggio che aveva tanto i connotati della fuga quanto quelli di un’esplorazione. Le tre navi che componevano la sua flotta con i loro 223 uomini di equipaggio erano salpate un mese prima dall’isola di Juan Fernández, dove avevano fatto sosta per rifornirsi e per qualche riparazione in vista del salto nell’Oceano sconosciuto.

E poi la mattina del 5 aprile, all’improvviso, il giorno di Pasqua di quel 1722, apparve un’isola, gettata in mezzo al nulla. Forse il pezzo di terra più isolato al mondo. Al centro del Pacifico, a 3.600 chilometri a Ovest delle coste del Cile e a 2.075 km a Est delle Isole Pitcairn. Il capitano la battezzerà con il nome della festa più importante dei cattolici. Per gli indigeni era Rapa Nui. L’isola appariva scarsamente abitata da esseri umani, mille, forse duemila in tutto. In compenso era popolata da migliaia di misteriosi manufatti. Statue ciclopiche, i Moai, raffiguranti figure umane stilizzate, con lunghe orecchie e uno strano copricapo in testa.

Roggeveen vi sostò solo pochi giorni. Investigò sulla natura di quelle statue, cercò un contatto con gli indigeni e forse ne uccise qualcuno. Ripartì quindi con le sue navi facendo rotta verso Ovest alla ricerca della mitica Isola di Davis. La scoperta dell’Isola di Pasqua fu il risultato più importante di quel viaggio; certamente quello per cui oggi Roggeveen viene ricordato. L’Isola attirò successivamente molte spedizioni, mosse da interessi commerciali, geografici e archeologici. Gli esperti iniziarono a studiare i Moai, a scavare siti misteriosi sepolti dal tempo, a classificare flora e fauna, ricostruendo in maniera via via più accurata la storia di quell’isola. Si scoprì, tra le altre cose, che un tempo quel pezzo di terra ospitava una civiltà avanzata, una flora rigogliosa e una fauna abbondante; arrivò a contare fino a quindicimila abitanti. Ma poi, a un certo punto, le condizioni mutarono. Eventi improvvisi ne causarono un subitaneo spopolamento. Forse lotte tra fazioni o, più probabilmente, un disastro ecologico che rese la vita su quell’isola così difficile che la maggior parte dei suoi abitanti morì o se ne andò. Nel 1877 sull’isola si contavano 111 sopravvissuti.

Nel suo libro Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (2005) il biologo e antropologo Jared Diamond avanza, a proposito della fine della popolazione indigena, un’ipotesi interessante che spiegherebbe non solo il declino della civiltà dell’Isola di Pasqua, ma anche l’improvvisa fine di molte altre popolazioni: i Maya, gli indiani Anasazi, i Vichinghi. Secondo Diamond, tutte queste popolazioni sono scomparse perché non sono riuscite a gestire in maniera sostenibile le risorse naturali che l’ambiente metteva loro a disposizione. Nel passato l’Isola di Pasqua era popolata da una fitta vegetazione composta da grandi alberi, parte di una rigogliosa foresta subtropicale, così fitta che per lungo tempo le piante vennero tagliate per far spazio alle coltivazioni. Il legname ricavato inoltre era indispensabile per trasportare ed erigere i grandi Moai, che ancora oggi sono visibili a migliaia sull’isola. Ma quando Roggeveen approdò sull’isola non scorse che piccoli alberi. La deforestazione era già praticamente completata.

La storia tragica dell’Isola di Pasqua, della sua decadenza, delle scelte tanto scellerate quanto inconsapevoli, dei suoi abitanti è la storia di tutti noi. È la storia di quelle risorse fondamentali da cui sempre più dipende la qualità della nostra vita, quelle risorse chiamate commons, “beni comuni”. Un bene comune è un bene comunitario, la cui gestione, la salvaguardia e la protezione non possono che essere faccenda collettiva. Ma è anche, proprio per questa ragione, un bene particolarmente fragile davanti all’avidità e all’egoismo dei singoli. Sono beni comuni l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo, le foreste, molti dei diritti di cui godiamo, il senso civico di chi paga le tasse e rispetta l’ambiente, la salute globale, la qualità del dibattito pubblico e il clima di fiducia nel quale lavoriamo e viviamo.

Sono tutti beni che stanno a metà tra i beni privati e i beni pubblici. Da questa natura ibrida scaturisce anche la loro fragilità. Perché nel caso dei beni comuni siamo davanti a un disallineamento tra costi e benefici individuali e il loro corrispettivo sociale. Ogni singolo avrà, infatti, un alto beneficio individuale dallo sfruttamento della risorsa, sia essa un pascolo, una foresta, l’acqua di una sorgente, la fiducia pubblica o la buona fede dei telespettatori, ma sopporterà solo una frazione del costo derivante da tale sfruttamento, perché tale costo ricadrà su tutti. Ma se le cose stanno in questo modo – i benefici individuali saranno sempre maggiori dei costi individuali – tale logica produrrà una spinta generalizzata verso lo sfruttamento eccessivo e, al limite, la distruzione della risorsa stessa.

È questo il monito dell’Isola di Pasqua, la logica di quella che Garrett Hardin definì The Tragedy of the Commons, la “tragedia dei beni comuni”.

Dobbiamo essere coscienti del fatto che è in questa polarità, tra esigenze collettive e interessi individuali, che si giocherà, nel prossimo futuro, sempre più, il nostro destino. Perché, come dicevamo, sono beni comuni, tra gli altri, l’ambiente naturale depredato, la salute globale messa a rischio, la fiducia personale e istituzionale tradita, la qualità del dibattito pubblico svilita, l’onestà dei governanti sempre incerta, l’equità dei mercati ogni giorno sempre meno evidente.

Curare le radici vuol dire, allora, comprendere come questi beni funzionano, quale logica presiede alla loro produzione e al loro godimento, come vengono erosi e come, soprattutto, possono essere rigenerati e protetti. Sono domande fondamentali per costruire quella mappa di cui, come Roggeveen a suo tempo, anche noi oggi abbiamo enorme bisogno. Fiducia, reputazione, sanzioni altruistiche, gratuità, motivazioni intrinseche, etica pubblica, minoranze profetiche e pluralismo sono solo alcuni degli elementi che andranno a comporre tale mappa. Una guida necessaria per navigare il grande mare e per provare a dare una risposta alla necessità di comprendere e proteggere assieme ai beni comuni, il bene comune che più ci riguarda, che ci tocca da vicino e che, sempre più spesso, inconsapevolmente, determina la traiettoria del nostro comune futuro.

La copertina del libro di Vittorio Pelligra

La copertina del libro di Vittorio Pelligra - Avvenire




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