La verità del "riparatore" e il figlio dell'ergastolano
mercoledì 29 dicembre 2021

Un novantenne sudafricano, vescovo anglicano, che muore. Un bambino italiano che ha ricevuto o riceverà dal padre il dono di un giocattolo. A prima vista, niente accomuna le due notizie, con quotidianità ed eccezionalità che nei primi dettagli ulteriori s’intrecciano, raddoppiando le differenze.

Desmond Tutu era uomo famoso in tutto il mondo da quando, nel 1984, era stato insignito del Nobel per la pace a causa della sua opposizione, non violenta ma intransigente, al regime dell’apartheid che allora teneva ancora il Sudafrica in una morsa mostruosa. Il destinatario del giocattolo è uno dell’immensa folla di piccoli che in questi giorni hanno avuto o avranno la gioia di trovarsi tra le mani uno o molti regali, e il suo nome e cognome non può, non deve dir nulla a nessuno: solo che qui il regalo verrà consegnato in carcere. Niente di eccezionale, per il primo, il vescovo, quanto a tempo e modalità dell’evento che ha fatto la notizia, ma lo è certamente la personalità del defunto; al contrario, nel secondo caso, quello del bimbo, è invece singolare la vicenda venuta sui media: il luogo, infatti, è il carcere. Eppure, se si guarda un po’ più a fondo, qualcosa di comune c’è. E non di poco conto. Tutu non fu unicamente un difensore della sua gente contro il razzismo al potere. Caduto l’apartheid, è poi stato promotore, e presidente, di quella Commissione per la verità e la riconciliazione, con la quale si è tentato - e non invano - di evitare che un passato di oppressione e di violenze si frapponesse come macigno insormontabile e senza varchi a un futuro, pur sempre irto di difficoltà anche pesanti ma aperto a una collaborazione tra tutte le entità etniche del Sudafrica.

E ciò ha potuto realizzarsi perché le pur comprensibili propensioni per un uso della giustizia come mezzo di rivalsa e di vendetta hanno ceduto il passo non all’oblio ma, appunto, alla ricerca rigorosa di una verità, per quanto scomoda: senza privilegiare la severità di sanzioni, in larga parte condonate anche per i crimini più gravi a fronte di sincere ammissioni di colpe. Una giustizia 'umana', insomma, nel senso migliore della parola, e riparativa. Disarmata delle armi più usuali, benché non rinunciataria, né a senso unico a discrezione degli oppressi divenuti vincitori.

Quanto al dono del giocattolo, deve aggiungersi che il carcere di cui si parla è uno di quelli che accolgono persone assoggettate al regime speciale dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Di regola, a chi si trova in tale situazione, è vietato lo scambio personale di oggetti con l’esterno. E il divieto è sicuramente giustificato, dato il pericolo che sotto spoglie innocenti si nascondano messaggi o anche qualcosa di più pericoloso. La Corte di Cassazione ha tuttavia autorizzato, nella specie, che la consegna avvenisse personalmente, e non attraverso l’intermediazione di un agente penitenziario, come era stato indicato dagli uffici ministeriali.

La soluzione, in nome dell’art. 30 della Costituzione e dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani che tutelano l’infanzia, è stata trovata con riferimento a modalità che dovrebbero garantire anche dal punto di vista della sicurezza: sì, dunque, alla consegna personale, la più congrua per far cogliere al piccolo il significato affettivo del dono; ma con il pacco, sigillato e custodito con tutte le cautele fino a pochi istanti prima dal personale penitenziario, incaricato anche della successiva sorveglianza.

Normalità del tutto recuperata? No; non illudiamoci né cediamo a sentimentalismi. Il contesto resta drammaticamente inusuale; è la realtà di feroci sodalizi criminali che impone misure adeguate di contrasto. Però, ecco un esempio di come si possa evitare di trasformare il contrasto in qualcosa che impedisce, a dei bimbi, di godere anche solo per un momento, di un gesto di affetto nella sua dimensione più autentica. Insomma, anche qui, sia pure in una dimensione minuscola, una giustizia che si sforza di non essere disumana.

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