mercoledì 29 ottobre 2014
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Alcuni scenari di lungo periodo dell’economia mondiale riaccendono la speranza messa a dura prova da anni di recessione. Un gigantesco processo di convergenza economica tra Paesi poveri e Paesi ricchi è in atto da decenni. La Cina, una delle principali protagoniste di questo processo, tra il 1980 e il 2010 ha ridotto dall’80% al 6% la povertà estrema. E, con essa, quella massa di diseredati che compete a basso costo con il 'nostro' lavoro. Peccato che in quel Paese l’inquinamento abbia reso l’aria irrespirabile nei grandi centri urbani. La speranza che la convergenza poveri-ricchi sia accompagnata, e trasformata in una creazione di valore economico socialmente ed ambientalmente accettabile, viene dall’altra grande rivoluzione dei nostri tempi, quella – silenziosa – del 'voto col portafoglio'. I cittadini stanno capendo che, nella globalizzazione, la democrazia passa dalle loro scelte quotidiane di consumo e di risparmio, scelte fondamentali per bilanciare una democrazia politica spesso ostaggio di grandi lobby. La crescita del 'voto col portafoglio' negli ultimi tempi è stata, in alcuni ambiti e in dati contesti, spettacolare: Eurosif calcola che la quota di mercato dei fondi d’investimento etici è arrivata al 40% in Europa, mentre quella del caffè con marchio equosolidale nel Regno Unito è al 35%. Il problema, in questa fase in cui molte grandi imprese stimolate dalla pressione dal basso dei consumatori vengono parzialmente 'contagiate', è semmai l’eccesso di domanda di prodotti etici che fatica nel breve periodo a trovare un’offerta adeguata.  A fronte di questi scenari di lungo termine, il problema principale per noi italiani sta nelle turbolenze della convergenza che dureranno ancora per decine di anni, nell’evoluzione di breve periodo dell’Eurozona e nei limitati gradi di libertà della nostra azione viste le regole attuali dell’Eurozona stessa. La legge di stabilità finanziaria appena impostata sta facendo uno sforzo importante per uscire dall’errore ideologico del 'rigorismo espansivo' e per procedere verso una riqualificazione della spesa pubblica (via suggerita dallo stesso presidente della Bce Mario Draghi a Jackson Hole: non taglio, ma trasferimento della spesa da aree di spreco a settori ad alto moltiplicatore, generatori di crescita). Altro impegno cruciale è quello per realizzare i famosi miglioramenti strutturali dal lato dell’offerta di beni e servizi, attraverso investimenti, ma il governo non può andare molto oltre visti i vincoli di bilancio in cui ci muoviamo.  È per questo che lo stesso esecutivo non si aspetta dall’attuale manovra più di un contributo dello 0,1% alla crescita. Ed è per questo motivo che la partita decisiva, come continuiamo a ripetere, si gioca nell’Eurozona. Con un appello sottoscritto da più di 340 economisti abbiamo provato a dare una scossa e allo stesso tempo un sostegno alla battaglia che il nostro governo si trova a dover affrontare all’interno della Ue. Lo scenario potrebbe cambiare in meglio e di molto se la Bce si ricordasse che, in base al suo stesso statuto, una volta raggiunto (anche troppo...) l’obiettivo di dare stabilità ai prezzi, deve contribuire a crescita, occupazione e coesione sociale. Le direttrici decisive di progresso indicate dall’appello degli economisti sono politiche fiscali europee espansive, l’armonizzazione fiscale, la monetizzazione del debito, la sua mutualizzazione e politiche di ristrutturazione dello stesso (progetto 'PADRE') che sono le uniche in grado di agire virtuosamente sul dilemma crescita/sostenibilità del debito, al contrario di quasi tutte le altre misure tradizionalmente considerate, che o spingono la crescita o puntano tutto sulla sostenibilità del debito.  L’Eurozona rischia di affondare come il Titanic perché, mentre alcuni lanciano l’allarme dell’iceberg che si avvicina, molti preferiscono rimuovere il problema ascoltando la musica dell’orchestrina sul ponte della nave. Leggendo male i dati. Il miglior risultato delle politiche del rigore sarebbe la Spagna che in realtà dalla crisi a oggi ha triplicato il rapporto debito/Pil e si ritrova con inflazione zero, una timida crescita dell’1%, un costo medio del debito del 3,6% e un deficit al 6,8%, ovvero in una traiettoria di crescita del debito ancora molto pronunciata che la porterà a superare il 100% del Pil il prossimo anno. Per non parlare della situazione assolutamente critica della Grecia. Tutt’altro che una dimostrazione dell’efficacia delle politiche del rigore (anche l’Italia sarebbe capace di 'fare' maggiore crescita con 4 punti di deficit in più a disposizione...).  Ecco per quali motivi le manifestazioni identitarie della Leopolda e di piazza di San Giovanni rischiano di portare fuori strada. La verità è che la strada di una macroeconomia civile di successo in grado di sviluppare l’integrazione dell’Eurozona, evitando la sua frantumazione, è ancora tutta da scrivere. Il popolo sempre più numeroso dei nuovi diseredati del nostro Paese e del Vecchio Continente aspetta con ansia dalla nostra classe politica una soluzione efficace. E non perdonerebbe chi distogliesse l’attenzione dal problema principale per porre in atto comportamenti strategici per fini politici, sindacali ed elettorali di breve periodo.
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