venerdì 14 marzo 2014
La manovra fiscale non regge con soli tagli alla spesa
di Leonardo Becchetti
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Siamo passeggeri a bordo di una nave in acque difficili e dunque non possiamo che augurarci per il nostro bene che il comandante abbia ragione. Quanto annunciato dal presidente del Consiglio suggerisce che Renzi abbia scelto una via molto più vicina a Keynes che ai principi dell’«austerità espansiva» (ormai caduta in disgrazia) o della prospettiva mercantilista per la quale un Paese cresce unicamente attraverso il canale delle esportazioni. E di questo ci rallegriamo. Molto buone le decisioni su edilizia scolastica e tutela del territorio, che sbloccano la spesa pubblica in settori ad alta intensità di lavoro dando un contributo diretto alla ripresa dell’economia. Ottimi per gli effetti moltiplicativi di benessere in rapporto alle risorse impiegate i chip messi sul fondo di garanzia delle piccole e medie imprese, sul credito d’imposta per i ricercatori e sul fondo per l’avvio di imprese sociali. Più complessa la valutazione delle iniziative sul cuneo, dove Renzi intende agire sia dal lato delle imprese sia da quello dei lavoratori.
In Italia quasi la metà del salario lordo pagato dalle imprese non si trasforma in reddito disponibile per i lavoratori. Quello che si perde (il cuneo) sono in parte tasse pagate dalle imprese (prevalentemente Irap) e in parte tasse pagate dai lavoratori (Irpef). Si è discusso molto in questi giorni sul derby tra sindacati e Confindustria relativamente a quale parte di cuneo fosse meglio ridurre. Per valutare le conseguenze della scelta operata è opportuno partire dalla fotografia della crisi del Paese, che registra un crollo della domanda interna solo parzialmente compensato dalla buona performance delle imprese esportatrici. In sostanza, la produzione di beni e servizi langue perché i cittadini italiani non hanno soldi in tasca e non consumano. Siccome quasi il 90% dell’economia è fatto di domanda interna è lì che bisogna intervenire in prevalenza. Ancora meglio sarebbe stato dare una corsia privilegiata ai nuclei familiari, danneggiati da una tassazione che non tiene in alcun modo conto del valore delle relazioni, dove in misura ancora maggiore gli sgravi si sarebbero tradotti in espansione dei consumi.
Gli 80–100 euro mensili in più in busta paga che si ottengono a seguito di un intervento sul cuneo dal lato dei lavoratori, dovrebbero generare prevalentemente un aumento di domanda interna, perché la propensione al risparmio per queste categorie dovrebbe essere bassa e la quota di consumi di prodotti esteri minoritaria. La riduzione del cuneo operata in tal modo è in realtà anche un beneficio per le imprese (beneficiate da una pur piccola riduzione dell’Irap, del 10%) perché i loro problemi sul mercato interno non sono legati a scarsa produttività, ma a carenza della domanda. E perché migliorare le condizioni economiche dei lavoratori ridurrà il conflitto sociale attorno alle misure di flessibilità che le aziende si trovano sempre più costrette a mettere in atto per difendere la produzione e, soprattutto, i posti di lavoro e l’occupazione. Che Renzi stesso ha promesso di rilanciare cancellando la rigidità in entrata creata dalla Fornero su apprendistato e contratti a tempo determinato.
La sostenibilità di questa manovra si giudica però dal lato delle coperture. È su questo che Renzi ha sinora perso il braccio di ferro sull’approvazione delle misure del cuneo già oggi subendo il rimando al 1° maggio. I 7 miliardi promessi dalla spending review sono in realtà solo 3 nelle parole del commissario Cottarelli. L’aumento degli introiti Iva a seguito dello sblocco dei pagamenti della Pubblica amministrazione è per ora sulla carta e la smobilitazione delle partecipate non strategiche (più di 10 miliardi in prospettiva) tutta da realizzare. Anche le risorse disponibili (circa 6 miliardi) con lo sfruttamento del margine di deficit fino al 3% dipenderanno dall’effettiva performance della finanza pubblica nel prossimo futuro e i guadagni sugli oneri da interessi sul debito per la riduzione dello spread sono tutt’altro che strutturali, in quanto legati alle dinamiche speculative dei mercati finanziari. L’azzardo, dunque, sarebbe soprattutto per quest’anno perché nei prossimi due anni tutto sarebbe coperto da spettacolari tagli di spesa pubblica di 18 e 34 miliardi rispettivamente. E qui potrebbe sorgere un problema.
Nei manuali di economia si spiega come una manovra con effetti espansivi sia quella del bilancio in pareggio. Ovvero un aumento della spesa pubblica accompagnato da un aumento delle tasse produce un aumento del Pil perché l’impatto sul Pil (moltiplicatore) della spesa pubblica è superiore alla contrazione di Pil generata dall’aumento delle tasse. Una manovra sul cuneo finanziata dai tagli della spending review invece sarebbe esattamente il contrario (un moltiplicatore di bilancio in pareggio alla rovescia) e dunque, secondo i manuali, una manovra recessiva piuttosto che espansiva. Come ricordava efficacemente John Maynard Keynes agli inglesi nel primo dopoguerra, una sterlina in meno di spesa pubblica è una sterlina in meno di domanda aggregata. È fondamentale dunque, che la futura manovra sul cuneo sia coperta, almeno in prevalenza, da voci diverse da quelle della spending review (ad esempio da risparmi da interessi sul debito per via del calo degli spread, dai pagamenti di Iva dei fornitori dello Stato dovuti allo sblocco dei pagamenti della PA, in prospettiva dalla cessione delle partecipate pubbliche non strategiche a livello locale e da un uso del margine di flessibilità fino al 3% di rapporto deficit/Pil).
Una parte fondamentale della partita si gioca però fuori casa. Mia figlia alle elementari torna a casa con i compiti sul diario dettati dalla maestra. Se l’Europa si riduce a questo e se la maestra è il Commissario agli affari economici Olli Rehn, allora siamo messi male. Che senso ha fare le elezioni europee se non usiamo questa occasione per lanciare un serio dibattito politico che si proponga di trasformare un matrimonio ormai d’interesse da separati in casa, quale è ormai il legame tra i Paesi europei, in qualcosa di meglio? Il Fiscal Compact ci imporrebbe il prossimo anno una crescita nominale (inflazione più crescita del Pil) pari al 3% per evitare manovre correttive. Come possiamo fare con una Banca centrale europea che con la sua politica monetaria spinge alla deflazione? Un leader che si rispetti va in Europa a chiedere una politica fiscale più coraggiosa ed espansiva che possa aiutare i Paesi in difficoltà a mantenere in equilibrio i loro conti di finanza pubblica (sui quali peraltro non è opportuno perdere i buoni risultati in termini di posizionamento relativo tra i paesi membri sul deficit conseguiti con i sacrifici di questi ultimi anni) e una riforma della Bce che la renda più simile alla Fed. Ovvero una banca centrale che, come negli Stati Uniti, si pone direttamente l’obiettivo di ridurre la disoccupazione usando l’espansione monetaria. E un impegno deciso per la riforma della finanza, l’armonizzazione fiscale e la lotta all’elusione che fa perdere ai paesi membri 1.000 miliardi di euro l’anno (di cui solo 60 in Italia) secondo le linee già prefigurate in Europa e raccontate su queste colonne.
Fare i compiti in casa non basta ed è riduttivo se non pensiamo in grande e non mettiamo in discussione criticamente il metodo della «maestra», soprattutto quando nelle classi vicine ci sono altre maestre con altri curriculum che usano metodi diversi che producono migliori risultati. Nel calcio si dice ai difensori che fronteggiano attaccanti estrosi per non essere confusi di non guardare alle finte di corpo ma alla direzione del pallone. È sui fatti che dobbiamo aspettare la buona volontà di Renzi alla prova.
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