giovedì 12 novembre 2015
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Che uomo sarebbe mai, questo “uomo nuovo” inaugurato dalla missione terrena di Gesù Cristo, se non rivelasse ancora ai suoi discepoli e seguaci il fascino di una “originalità paradossale”? Papa Francesco lo individua in una triplice definizione del “sentire” del cuore di Cristo, vera misura della sua incarnazione: umiltà, disinteresse e beatitudine.Umili si è non a parole, ma con i fatti. E quanto più la nostra natura discende, tanto più trascende: è questo il miracolo di chi volontariamente si fa “piccolo tra i piccoli”. Disinteresse è esodo da sé e assunzione incondizionata dell’altro; è decentramento della mente, del cuore e della volontà da ogni idolatria di sé e del proprio stato, perché nessuno sia mai un indeterminato “tu”. E poi beatitudine, come stile di vita, come apertura di cielo sulla terra, come opportunità di gioie umane dove nessuno oserebbe. Il vero centro di gravità delle parole del Papa è, senza dubbio, il tema dell’Incarnazione come segno di attrazione e di contraddizione. Gesù Cristo fatto uomo è la rivoluzione copernicana da riaffermare, che sovverte tutte le regole, gli schemi, le strutture materiali e mentali. È carne eppure trascendenza; è svuotamento eppure pienezza; è disonore eppure gloria; è umiliazione eppure beatitudine. Ognuno di questi apparenti ossimori è una sfida per l’uomo e per il cristiano. Non si tratta di cimentarsi con le irraggiungibili virtù soprannaturali di un Dio lontano, ma di avere a che fare con i “sentimenti” di Gesù. E allora, perché la sfida appare titanica dal momento che dobbiamo commisuraci con il Figlio dell’Uomo? Perché l’umanità di oggi è ferocemente dilaniata da sentimenti contrari a quelli di Gesù. L’umiltà cuce l’abito al perdente, il disinteresse allo sprovveduto, la beatitudine all’ingenuo. L’Incarnazione, infatti, è contraddizione, come la fede; la sua antinomia è sempre rivoluzionaria e capovolgente. Dunque il cristiano, se veramente incarnato, a somiglianza di Gesù, non può che farsi egli stesso attraente segno di contraddizione. Prima di tutto per se stesso: come farà questo nostro uomo contemporaneo a rinunciare alla sua gloria, a non perseguire il suo bene, a essere beato se povero e perseguitato? Il segreto è quello semplice di Francesco. Un cuore aperto, spalancato, dilatato non dilaniato sul mondo. Un cuore da trapiantare nella carne di questo mondo, di questo tempo che attende ancora di essere trasfigurato. I media, come sempre, si sono affrettati a sottolineare, tra le parole del Papa, la frase che più sembra crocifiggere la Chiesa e i credenti alle proprie responsabilità: non è accettabile una Chiesa ossessionata dal potere. Certo, al fondo degli ammonimenti del Pontefice c’è l’idea di una Chiesa che non si lasci ammorbare dalle regole, dalle norme, dagli statuti, dalle strutture, dai procedimenti: ma non è una storia nuova. Piuttosto è una sfida che si rinnova. Che, dice Francesco, non ammette più ritardi e giustificazioni pastorali. Di più: è di tutta evidenza che il pericolo dello gnosticismo, richiamato dal Papa, ci spingerebbe nel recinto chiuso delle nostre esperienze consolidate. Francesco è capace di fornirci una “speranza realista”, davvero alla nostra portata. A portata di fede. E ammonisce: c’è di più. C’è di meglio. C’è un “non ancora” che non deve dare rassegnazione e riposo. Se la misura è il limite, allora è davvero tempo di miracoli, cioè l’immensa – ma possibile – quotidiana, umile, nascosta, disinteressata fatica del fare aderire il Vangelo alla realtà. Fatica, sì, cioè lavoro, tanto e moltiplicato impegno per l’uomo, tra gli uomini. È la rivincita del fare sull’essere? No, è l’equilibrio praticabile tra l’essere e il dover essere, che è la misura del vero umanesimo: è questo che Gesù ci ha insegnato nel suo percorso dal cielo alla terra, una trascendenza che si comprende tra una stalla e un legno di croce.
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