La tragedia del popolo yemenita, tra ferocia e inerzia
mercoledì 27 dicembre 2017

Mille giorni dopo, la fisionomia del conflitto in Yemen è molto cambiata: da scontro tribale-politico per il potere e le risorse a disputa indiretta fra sauditi e iraniani. Ma in questa guerra complessa e insieme mutevole c’è una costante: la crisi umanitaria. Sono ventidue milioni gli yemeniti (su un totale di oltre ventisette) che necessitano di assistenza umanitaria e più di otto milioni soffrono la fame, come rimarcato dal Programa alimentare mondiale delle Nazioni Unite.

Nel giorno di Natale, papa Francesco ha ricordato in modo accorato lo Yemen e il suo «conflitto in gran parte dimenticato», iniziato nel marzo 2015, quando una coalizione militare araba guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti intervenne a seguito del golpe degli insorti (i miliziani houthi del nord alleatisi con il blocco di potere dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh). Ciò che avviene nell’unica repubblica della Penisola Arabica non ha, per troppo tempo, fatto notizia: «Yemen, the war the world ignores» (Yemen, la guerra che il mondo ignora) titolava in copertina "The Economist" lo scorso 2 dicembre.

Il 2017 è stato l’anno in cui il velo del silenzio ha cominciato, di tanto in tanto, a squarciarsi: questa è l’unica nota di speranza in uno scenario cupo. Ciò purtroppo, come "Avvenire" continua a documentare e a denunciare, non ha alleviato le sofferenze del popolo yemenita e non ha favorito la diplomazia. Tuttavia, la crescita della tensione geopolitica fra Arabia Saudita e Iran, insieme al capolinea dell’esperienza territoriale del sedicente Stato Islamico fra Siria e Iraq, hanno fatto sì che alcuni altri media (tra la carta stampata, soprattutto il britannico "The Guardian" e il francese "Le Monde") dedicassero qualche attenzione in più allo Yemen.
Il 2018 segnerà la fine di questo conflitto? Molto probabilmente no. Il Paese è ormai così politicamente e militarmente frammentato che un eventuale "accordo ai vertici" sarà impossibile da tradurre, in maniera durevole, dalle troppe milizie sul campo. La stessa risoluzione 2216 delle Nazioni Unite (aprile 2015), che ha finora rappresentato la cornice negoziale, è stata superata dalla realtà; per esempio, lo Yemen non ha più due ma bensì tre "governi", compreso quello dei secessionisti meridionali, di fatto sostenuto anche dagli emiratini, che stanno ricavandosi un’area di influenza strategica nel sud costiero.

La risoluzione chiedeva ai ribelli di ritirarsi dalle aree occupate e restituire le armi sottratte all’esercito: ma l’uccisione dell’ex presidente Saleh il 4 dicembre, per mano di miliziani houthi (sodali di Saleh fino al suo ennesimo cambio di campo pro-saudita, avvenuto appena quarantotto ore prima), ha rapidamente ridisegnato allineamenti e alleanze tribali-militari.

Tutti sembrano schierarsi contro gli houthi, che intanto regolano i conti contro gli ex alleati a Sanaa: il sistema di potere dell’era Saleh (1978-2011), di cui il generale Ali Mohsin al-Ahmar è il simbolo ritrovato, si è riconfigurato con la "benedizione" di Riad e Abu Dhabi. Dopo l’uccisione di Saleh, la bloccata linea del fronte si è spostata. Gli anti-houthi, appoggiati dai raid sauditi e dalle milizie meridionali addestrate dagli Emirati Arabi, avanzano su Hodeida: quello del mar Rosso è il principale porto per l’ingresso degli aiuti umanitari, ma anche l’unico collegamento marittimo (nonché fonte di finanziamento houthi) per le terre settentrionali da loro occupate.

Onu e Stati Uniti sostengono che da qui (e dall’Oman) stiano entrando le parti dei missili di fabbricazione iraniana poi assemblate in Yemen e lanciate dagli houthi contro l’Arabia Saudita: l’ultimo era diretto contro il palazzo del re. Ogni lancio di missile, vera questione di sicurezza nazionale per Riad, peggiorerà l’embargo e quindi la situazione umanitaria dello Yemen, anche se i sauditi tengono per ora aperto il porto di Hodeida. E pensare che proprio l’Arabia Saudita, come in una profezia che si auto-avvera, ha spinto gli houthi nelle braccia di Teheran, dipingendoli come suoi "clienti" quando essi erano soltanto un movimento della periferia yemenita. E, intanto, nella quasi inerzia del mondo, un intero popolo soffre per questa feroce «guerra dimenticata».

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