martedì 27 luglio 2021
Dal Festival di Cannes indicazioni e conferme di una tendenza in atto
La regista Julia Ducournau premiata con la Palma d’Oro per 'Titane' al 74esimo Festival di Cannes

La regista Julia Ducournau premiata con la Palma d’Oro per 'Titane' al 74esimo Festival di Cannes - Reuters

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Si è da poco concluso il Festival di Cannes con un verdetto (specialmente per la Palma d’Oro a Titane della regista Julia Ducournau) da molti considerato assai discutibile. C’è chi – probabilmente con qualche ragione – ha voluto vedere una forzatura in omaggio al politically correct la Palma d’Oro a una regista donna (la seconda volta in 74 anni, dopo la Jane Campion di Lezioni di piano...), in un film che occhieggia alla fluidità sessuale e propone strani ibridi fra uomo e macchina. Tutti temi “di moda”, in un film che però ha avuto giudizi negativi quasi unanimi dai critici, seguiti però da questo ambitissimo premio conferito da una giuria “inclusiva” presieduta da Spike Lee. Era il festival della ripartenza, anche per il mercato del cinema francese, il più forte d’Europa, e il sostegno delle istituzioni francesi al loro cinema ancora una volta si è fatto sentire, con una forte presenza di film d’Oltralpe non solo in competizione, ma anche nelle ampie sezioni collaterali. La pattuglia italiana, nonostante il nulla di fatto per il film di Moretti, ha avuto alcune soddisfazioni: primo di tutti il premio al bel film di Jonas Carpignano, A Chiara, un intenso dramma famigliare ambientato a Gioia Tauro, con protagonista una quindicenne che scopre che il padre è coinvolto nelle attività della ’ndrangheta. Carpignano per interpretare i cinque membri della famiglia ha scelto una famiglia vera, quindi tutti attori non professionisti, ed è riuscito a dare un forte senso di verità alla messa in scena, costruendo comunque un dramma che dopo qualche lungaggine iniziale, nella seconda metà diventa asciutto e potente. Presentato alla Quinzaine des Realizateurs ha vinto il Premio come miglior film europeo di quella sezione.


La necessità di affrontare la fluidità di genere per ottenere riconoscimenti dalle giurie sta politicizzando le trame dei film Anche cancellando le storie di amicizia

Alcuni giornali hanno fatto notare – chi con soddisfazione, chi in modo negativo – la forte presenza di film con tema e/o personaggi omosessuali, transessuali o dalla identità incerta: non si è trattato solo di Titane (non a caso la regista nelle sue dichiarazioni ha inneggiato alla fluidità di genere), ma anche di molti altri film, in concorso e no. Per esempio entrambi i film in cui era impegnata la nostra Valeria Bruni Tedeschi ( La fracture, e Les amours d’Anais) vedevano il suo personaggio in relazioni lesbiche; c’è stato poi il progettato scandalo del film di Verhoeven, Benedetta, accolto però da risate alla proiezione in sala... In concorso c’era anche Les Olympiades di Jacques Audiard, con tre ragazze bianche e un ragazzo nero che si uniscono in varie combinazioni sessuali; non è al centro della storia, ma anche uno dei personaggi di Stillwater, in concreto la figlia di Matt Damon, aveva una relazione lesbica. Ma anche solo scorrendo le sinossi dei film delle sezioni collaterali, la sensazione è che ormai fosse quasi difficile trovare un film senza una storia d’amore omosessuale. Pare proprio che si sia innescato un circolo (vizioso o virtuoso a seconda dei punti di vista) per cui gli autori sanno che se c’è un certo tema, questo film verrà privilegiato dai selezionatori: ecco che sceneggiatori e registi (e produttori) vengono spinti sin dalla concezione a inserire ruoli omosessuali per avere una chance in più di entrare nei selezionati, con un effetto paradossale: quella che doveva essere una minoranza da rappresentare in senso anti discriminatorio sembra ormai diventata una maggioranza egemonica, almeno in alcuni contesti festivalieri.

Deve essere forse successo qualcosa di simile nella scrittura di Piccolo corpo, bel film di Laura Samani presentato alla Semaine de la Critique, dove la presenza di un personaggio dalla identità sessuale ambigua è totalmente staccato dal focus del film (sul rapporto fra una madre e una bimba morta) e questa dimensione sembra proprio un omaggio al politically correct. Se si andrà confermando la totale fluidità sessuale nei racconti che troviamo sugli schermi, una delle non poche conseguenze sarà quella di cancellare le dimensioni dell’amicizia più normale, specialmente fra adolescenti e fra giovani: verrà immediatamente tutto sessualizzato. Non è un caso che alcuni recensori americani abbiano interpretato in chiave Lgbt il film della Pixar Luca, che è invece una semplicissima storia di amicizia maschile fra due ragazzini (fra l’altro ispirata alla storia vera dell’amicizia dello stesso regista con un suo compagno di scuola).


Sembra proprio che si sia innescato un circolo (vizioso o virtuoso a seconda dei punti di vista) per cui gli autori sanno che se c’è un certo argomento, questo film verrà privilegiato dai selezionatori.

Altri temi “caldi” del festival sono stati l’eutanasia e il “diritto a morire” (il film di Ozon con Sophie Marceau), così come una certa presenza di temi ed episodi che riguardano l’aborto (è centrato sul diritto ad abortire il film in concorso Lingui, ambientato in Ciad, ma ci sono episodi di aborto anche in altri film, come Les amours d’Anais, dove l’aborto viene trattato come una breve e innocua pratica da sbrigare). Per fortuna ci sono stati documentari interessanti come Futura, di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, dove si dà voce a giovani italiani che si fanno domande sul futuro, e il documentario di Oliver Stone sull’omicidio Kennedy, Through the looking glass, che fa il punto sulle acquisizioni – inquietanti– degli ultimi tre decenni, sulla differenza fra la verità “ufficiale” e le numerose prove emerse in questi ultimi decenni che la smentiscono.


Quella che doveva essere una minoranza da “proteggere” sembra diventata una maggioranza egemonica in alcuni contesti


Succedono poi cose un po’ paradossali nell’impegno “affermativo” che sembra aver preso piede nel mondo del cinema e della Tv contemporanea. Nel Marché du film, che accompagna il festival, era in distribuzione un numero speciale di Deadline, una testata hollywoodiana abbastanza recente, ma che negli ultimi anni si è ben sistemata accanto ai più blasonati Variety e The Hollywood Reporter. In un elenco di profili e interviste a disruptors, grandi innovatori, ce n’era uno dedicato a Ryan Murphy, che riportava una sua riflessione di quando in una riunione con altri showrunner si rese conto di essere l’unico gay nella sala: «Devo fare qualcosa per aumentare la nostra presenza », si disse. Non è chiaro a che anno si riferiva Murphy, che nella decina di serie Tv che ha creato (da Nip/Tuck a Glee a Pose) ha poi sempre portato avanti la promozione della cultura gay...

Ma è ironico che solo poche pagine prima c’era il profilo di Greg Berlanti, celebrato perché nelle 15 serie che sta direttamente o indirettamente dirigendo, sta portando avanti la stessa battaglia culturale... Ma l’elenco sarebbe potuto continuare a lungo, con Alan Ball ( American Beauty, Six Feet Under), Kevin Williamson ( Dawson’s Creek, The Vampire Diaries e molte altre), Darren Starr ( Beverly Hills 90210, Sex and the City, Emily in Paris ecc.). Insomma, non si capisce bene a quale riunione abbia partecipato a suo tempo Murphy per sentirsi così solo...

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