martedì 6 giugno 2023
L’invecchiamento di Paesi come Cina, Giappone e Corea del Sud spinge a stabilire nuovi e più stretti rapporti con nazioni giovani e in grado di garantire manodopera
Il Giappone è il Paese più anziano al mondo: il 28,4% della popolazione ha oltre 65 anni

Il Giappone è il Paese più anziano al mondo: il 28,4% della popolazione ha oltre 65 anni - Ansa

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La tendenza di lungo corso verso una popolazione crescente e in marcia verso le grandi città in grado di fornire impieghi a buon mercato ha raggiunto un punto di svolta in Cina, che dallo scorso anno si è aggiunta all’elenco dei Paesi asiatici con una popolazione in calo. Il fatto che per il colosso estremo orientale questo coincida con una crescente domanda di infrastrutture moderne e una fase economica caratterizzata dalla crescita più bassa degli ultimi vent’anni, apre una serie di interrogativi. Tuttavia è opinione prevalente tra gli esperti che la Repubblica popolare cinese, come le altre economie dell’Asia nord-orientale in deficit di nascite e in rapido invecchiamento, con ogni probabilità continuerà ad avere un ruolo di primo piano. Affinché questo si avveri continuando a garantire alla propria popolazione l’attuale qualità della vita e un welfare adeguato, si dovranno però anche elaborare nuovi rapporti con gli Stati che nel continente godono di una forza lavoro consistente, giovane e sempre più qualificata ma a rischio di sottoccupazione.

Le economie oggi dominanti dell’Asia stanno complessivamente sperimentando un invecchiamento della popolazione di una rapidità senza precedenti. Solo 25 anni fa il Giappone – che per il settimo anno consecutivo nel 2022 ha visto un declino delle nascite – ha superato l’età media di 40 anni e la tendenza si è poi consolidata, con un’accelerazione che l’ha portato dai 40,4 anni nel 1999 ai 48,4 del 2021, tallonato dagli industriosi vicini sudcoreano, taiwanese e – a qualche distanza ancora – cinese. Il resto del continente, con eccezioni anche di rilievo, come quella della Thailandia – segue però una tendenza diversa, con un elevato numero di giovani e un’età media notevolmente più bassa. Bangladesh, Filippine, India, Indonesia e Vietnam ne sono gli esempi più significativi e complessivamente sono loro, più che i “giovanissimi” ma più piccoli Laos e Cambogia, a garantire ora una media continentale di soli 32 anni di età contro i 44,4 dell’Europa.

Questa transizione demografica diversificata apre a nuove prospettive, con le tradizionali potenze manifatturiere – Giappone e Corea del Sud in testa e sulla loro traccia anche la Cina – che già vanno spostando una parte consistente della produzione in aree dove possono disporre di manodopera abbondante ma anche sempre più preparata a operare secondo i loro standard. D’altra parte, proprio la Corea del Sud mostra l’entità delle sfide future legate al calo del 35% della forza lavoro nell’età dai 20 ai 64 anni, previsto entro il 2050, e che costringerà anche a un significativo (e preoccupante date le tensioni con la Corea del Nord) ridimensionamento della leva obbligatoria. Solo all’apparenza migliore appare la situazione di Repubblica popolare cinese e Taiwan, dove il calo della popolazione attiva previsto è rispettivamente del 20,6 e del 28,6%.

Per cercare di sostenere le proprie necessità Giappone, Corea del Sud e Taiwan hanno aperto a programmi di immigrazione per specifiche categorie di lavoratori (ad esempio marittimi, medici, infermieri e badanti) ma su una scala poco incisiva nel rilancio della popolazione attiva. Per la Cina, poi, la vastità del problema non potrà mai essere risolto con l’apertura ad apporti esterni, peraltro sottoposti a molti limiti. Una immigrazione regolamentata e collegata alle necessità concrete dei diversi settori produttivi potrebbe quindi essere, se non la soluzione definitiva, almeno di ausilio per risolvere la scarsità di lavoratori e sostenere i bilanci pubblici. In questo senso Australia e Nuova Zelanda sono da tempo esemplari, superando con una politica d’immigrazione e integrazione attenta (anche se intransigente verso gli arrivi non opportunamente documentati) la contrazione delle nascite e quindi favorendo un incremento della popolazione complessiva.

Il Vietnam rappresenta un “caso” pressoché a se stante ma che potrebbe diventare comune con altri Paesi in via di sviluppo che hanno avuto in anni recenti un grande slancio produttivo, in particolare nel settore manifatturiero indirizzato all’esportazione. Al momento si trova in una condizione di equilibrio demografico, raggiunto favorendo o a volte forzando una sostenuta migrazione interna dalle aree rurali a quelle urbane e più produttive. Anche all’estero, però con un numero crescente di giovani vietnamiti che cerca altrove maggiori possibilità di benessere e che rischia di diventare fiumana in mancanza di adeguate prospettive interne. In un certo senso il Paese è apripista di un nuovo paradigma, quello in cui ingenti investimenti stranieri (nel suo caso in particolare quelli sudcoreani), consentono non solo di sostenere la crescita economica ma anche di garantire migliori condizioni di vita e incentivare un numero adeguato di nascite. Una “simbiosi” di alto livello che per Seul non si esaurisce nel solo Vietnam, anche se qui ha la scala maggiore.

Basti pensare che nel 2018 oltre il 25% del Pil del Vietnam è derivato dalle operazioni di un solo grande investitore, la sudcoreana Samsung. D’altra parte la produzione vietnamita ha garantito nello stesso anno il 30% delle vendite globali di Samsung. Il Vietnam è solo una delle “medie potenze” economiche dell’Asia-Pacifico che tendenzialmente arriveranno nel prossimo futuro a seguire il percorso di crescita e progresso di altre nazioni asiatiche provando a evitare la “trappola” demografica posta sul loro cammino. L’India, che sta sorpassando la Cina come Paese più popolato al mondo e che si prevede aggiungerà altri 256 milioni di individui alla sua popolazione entro il 2050, ha in questo senso enormi prospettive rispetto al rivale cinese, e non solo. Si calcola che alla metà del secolo Cina, Giappone e Russia avranno, complessivamente rispetto a oggi un saldo demografico negativo superiore alla popolazione dell’intero Bangladesh, che si avvicinerà ai 200 milioni. L’integrazione dovrebbe anche consentire ai Paesi emergenti di evitare le difficoltà vissute da altri: un eccesso di popolazione rispetto alle risorse disponibili, soprattutto quelle alimentari; ampia disoccupazione e sottoccupazione; instabilità politica.

Come evidenziato da Andrew L. Oros, docente statunitense di Scienze politiche e Studi internazionali in un saggio recentemente pubblicato su East Asia Forum, «i cambiamenti interni alla popolazione dell’Asia-Pacifico aprono a maggiore interconnessione e condivisione delle sfide». Quindi, nonostante le tensioni e le difficoltà attuali, «la tendenza indirizza ad avere rapporti più stretti tra gli Stati. I cambiamenti demografici nelle potenze in invecchiamento contribuiscono a un incremento degli investimenti negli Stati con economie in crescita, creando nuove opportunità per essi di trarre beneficio dalla competizione tra rivali economici». Tuttavia, sottolinea ancora Oros con particolare riferimento alla Repubblica popolare cinese, «i leader si trovano davanti a crescenti pressioni politiche per l’inadeguatezza delle strutture nelle nuove aree urbane, un’altra sfida dovuta al dividendo demografico».

Prima che la sua popolazione si associ al picco demografico mondiale di fine secolo, l’Asia-Pacifico avrebbe quindi la possibilità gestire al suo interno crescita condivisa e ridistribuzione di risorse, opportunità e benessere. In mancanza di eventi catastrofici, starà alle sue leadership politiche accoglierla e agli organismi di gestione sovrannazionale non ostacolarla.

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