mercoledì 27 settembre 2023
Il Turkana è il lago desertico più grande al mondo: a causa del clima le popolazioni locali hanno perso l’80% del bestiame e la pesca è impraticabile. La speranza nell’educazione
Scene di vita a Loyangalani, villaggio sulle sponde del lago Turkana nel Kenya del nord

Scene di vita a Loyangalani, villaggio sulle sponde del lago Turkana nel Kenya del nord - Anna Pozzi

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È una terra di vento e di sabbia, di orizzonti sconfinati punteggiati qua e là di acacie solitarie. Una terra bruciata dal sole. Una terra di niente. «Qui i bambini non sanno neppure che cos’è la pioggia. Perché non l’hanno mai vista!», dice padre Mark Gitonga, unico missionario della Consolata a Loyangalani, sulle rive del Turkana, il lago desertico più grande al mondo. Una distesa immensa di acqua, in una regione assetata da una lunghissima siccità. Sono almeno quattro o cinque anni che non piove nel nord del Kenya, così come in molte zone del Corno d’Africa, dove più di 23 milioni di persone, secondo il World Food Programme (Wfp), soffrono la fame e più di 5 milioni di bambini sono gravemente malnutriti. Le popolazioni locali – turkana, samburu, rendille ed el-molo – tradizionalmente dedite alla pastorizia, hanno perso l’80% del bestiame. In questa terra che è stata la culla dell’umanità, oggi la gente muore di sete e di fame.

Qualcuno, soprattutto i turkana, si sono avvicinati al lago, ma non sanno pescare. Si avventurano sull’acqua con esili zattere in balìa delle onde sollevate dai forti venti. E poi – per un fenomeno che gli studiosi stanno ancora indagando – le acque si stanno innalzando ed è cambiata la salinità, dunque è diventato più difficile trovare il pesce. Nel frattempo, ampi tratti di costa sono stati sommersi. Uno dei due villaggi degli el-molo (la più piccola etnia dell’Africa), che si adagiava sulla riva, ora si trova su un’isola. Pure la piccola chiesa di Tumkende è minacciata dal lago, che ormai lambisce gli scalini d’ingresso. « Abbiamo già dovuto ricostruire la cucina e alcune aule della nostra scuola», dice padre Mark, mentre ci mostra i vecchi edifici che emergono appena dall’acqua. Pare si tratti di un fenomeno legato non solo ai cambiamenti climatici, ma anche alle sorgenti sotterranee e ai movimenti delle placche tettoniche che provocano un analogo innalzamento degli altri laghi della Rift Valley.

Padre Mark è un missionario keniano della Consolata, che proprio in Kenya ha la sua terra di elezione. In questo Paese arrivarono i primi missionari nel 1902 e in molte diocesi – soprattutto nelle zone più remote e difficili del nord – la loro presenza e le loro opere sono ancora ben visibili, anche se il numero degli italiani si è progressivamente assottigliato. Molte parrocchie e attività sono state trasferite alla Chiesa locale o vengono portate avanti da missionari keniani. Come padre Mark che è originario di una regione rigogliosissima del Kenya, ma si è adattato a vivere sulle rive del Turkana, affrontando condizioni climatiche estreme, per le temperature spesso altissime e, appunto, per la mancanza di pioggia. «La situazione umanitaria è catastrofica - dice -. Essere malnutriti è diventata la norma per donne e bambini. E gli uomini non stanno molto meglio».

Sotto un’esile struttura fatta di arbusti, un’infermiera sta pesando un bambino minuscolo: ha sei anni e pesa sei chili. Sua madre porta le tradizionali collane e gli orecchini che la identificano come donna sposata, ma pure lei sembra una bambina. L’infermiera le consegna alcune bustine di cibo terapeutico che il bambino inizia immediatamente a succhiare. « Poi, quando tornano nelle capanne, lo mangiano anche le mamme – fa notare rassegnata –. Ma che cosa possiamo fare? Pure loro non hanno niente…». Non c’è cibo e non ci sono medicine. « Da diversi mesi il governo non ci manda nulla», si lamenta l’infermiera, che si sposta da un villaggetto all’altro per individuare i casi più critici. Padre Mark cerca di rifornire regolarmente il dispensario della parrocchia, ma i pazienti sono pochissimi perché quasi nessuno è in grado di pagare le cure per quanto costino pochissimo. Se poi qualcuno sta veramente male, deve recarsi a Marsabit, a più di cinque ore di viaggio su piste dissestate, pagando una sorta di ambulanza che quasi nessuno può permettersi.

Nelle scuole le cose non vanno meglio: « Da mesi non ci mandano cibo», protesta Teresalba Sintiyan, direttrice delle elementari cattoliche di Loyangalani, e impegnata sia in parrocchia che in un’organizzazione che si occupa di problematiche femminili e cambiamenti climatici: «Istruzione e salute sono le grandi sfide di questo territorio – conferma – e riguardano innanzitutto le donne che continuano a essere discriminate e marginalizzate. Non hanno voce, non vengono mandate a scuola e sono forzate a sposarsi giovanissime. La crisi climatica, poi, ha aggravato la situazione e accresciuto i conflitti intercomunitari». Conflitti peggiorati pure dalla diffusione delle armi che sono l’unica cosa che non manca in questa regione anche per la vicinanza dell’Etiopia continuamente afflitta da crisi e guerre.

Nell’unica scuoletta in cui è rimasta un po’ di farina, paradossalmente, non c’è legna per cucinarla. Anche questo è un bene prezioso (e costoso) in un territorio dove non ci sono alberi. Quasi sempre sono le ragazzine turkana che percorrono lunghissime distanze per andare a raccogliere qualche arbusto e rivenderlo. Quella dell’educazione è la missione nella missione di padre Mark. «È quello che mi tiene qui!», ammette. Oltre ad accompagnare la piccola comunità cristiana composta da circa cinquemila cattolici su un territorio vastissimo, padre Mark sta investendo molte energie proprio per garantire un’istruzione ai bambini grazie a tante piccole scuole. Alcune sono molto rudimentali, costruite con rami e paglia come le capanne dei villaggi; altre, come a Loyangalani e Moite, i due principali centri della zona, sono in muratura. «In questa regione, più del 90% della popolazione istruita lo deve alle scuole cattoliche portate avanti in oltre cinquant’anni di presenza. Ancora oggi però molte famiglie non ne capiscono l’importanza e non vi mandano i bambini; se lo fanno è solo perché possano avere almeno un pasto al giorno».

A Moite la giornata comincia all’alba. Prima di recarsi in classe, i bambini vanno al greto del fiume, dove alcune ragazzine scavano finché non trovano l’acqua. Con le tazze riempiono i recipienti che poi i piccoli alunni portano a scuola per preparare il porridge. Teresa Lopowar Etapar è la prima e unica donna laureata di questo villaggio grazie a padre Mark, che oggi sostiene quasi 150 studenti nelle scuole superiori di altre parti del Kenya, con l’aiuto di famiglie locali e il sostegno di benefattori italiani che purtroppo si è molto ridotto. «Stiamo combattendo con le poche forze e le poche risorse che abbiamo per risollevarci – dice Teresa –. L’insicurezza alimentare è gravissima. Molta gente, nel suo cuore, vorrebbe tornare a dedicarsi alla pastorizia e alla vita che ha sempre fatto. Le comunità hanno chiesto alla contea di risarcirle del bestiame perso a causa della siccità, ma per ora hanno ricevuto solo promesse».

Siprosa Akiru, invece, una promessa la porta nel suo stesso nome: Akiru, infatti, vuol dire “pioggia”. È nata in un tempo in cui questa parola aveva un significato reale e la pioggia era una benedizione per uomini, animali e ambiente. Con le altre donne di una piccola comunità cristiana anima la Messa nel cortile di una casa, a Loyangalani, dove tutti cercano riparo all’ombra. Lo sguardo e la preghiera sono rivolti al cielo, in attesa di quella pioggia che da troppi anni è una speranza tradita.

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