mercoledì 1 ottobre 2014
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Ormai dovremmo saperlo che parlando di santità nessuno deve sentirsi tagliato fuori come da una competizione che accetti solo l’iscrizione di campioni o almeno di gente competitiva. Ma sotto sotto siamo convinti che per diventare santi occorrano qualità che non fanno parte del pacchetto-base del cristiano medio, e che faremo certamente il massimo per cavarcela ma la pasta è questa, e non ci si possono chiedere miracoli. Dunque chi è destinato a una normale vita quotidiana – che ci dicono terreno di santità – non avrebbe poi la strumentazione di carattere, virtù e spiritualità indispensabile per fare il salto nella categoria della perfezione. Un bel rompicapo. Poi però càpita di incrociare santi come Àlvaro del Portillo, beato da sabato scorso in una cerimonia da 200mila persone arrivate a Madrid da tutto il mondo. Àlvaro chi?, avranno detto molti. Uno che non ne conosce la biografia pensa: d’accordo, sarà stato un sacerdote con caratteristiche fuori dal comune, certamente una dose di eroismo, di interiorità, di apertura agli altri che nemmeno posso sognarmi. E non si sbaglia. Ma questo profilo così eccezionale è un approdo e non una premessa, lo straordinario è figlio dell’ordinario. Perché i testimoni che hanno conosciuto il primo successore di Escrivà alla guida dell’Opus Dei documentano concordi che era una persona certamente di grande valore ma dentro una cornice e una storia di normalità assoluta. Di Àlvaro del Portillo, futuro beato, tutti dicevano che fosse una persona buona, semplice, allegra, un ragazzo studioso, poi un ingegnere in gamba, infine un prete dedito alla sua missione, sempre sorridente. Che c’è di eccezionale in tutto ciò? Quanta gente abbiamo conosciuto – sacerdoti, religiosi, laici – con questo identikit? Ma è proprio questa configurazione comune che custodisce il fascino della sua santità e che gli ha guadagnato il sincero affetto della gente semplice: tanto Escrivà abbagliava per la sua personalità straripante e contagiosa – un uomo, dissero in molti, «che seguirei in capo al mondo» – quanto don Àlvaro era discreto, umile, lavoratore, l’ombra del fondatore al quale tutti guardarono un attimo dopo la morte del «padre», di un uomo cioè la cui santità era pressoché universalmente riconosciuta.Cercando la strada da seguire fu naturale volgersi a chi non vestiva i panni del numero uno ma l’indiscussa, tenace e persino oscura fedeltà del numero due. Il primo degli altri, il primo di noi che probabilmente non siamo fuoriclasse, ma servitori. La fedeltà di chi segue una strada aperta dalla grandezza altrui è la vera, grandissima santità della quale ha urgente bisogno il nostro tempo: non solo prim’attori, ma gente che conosce il suo posto nel mondo, e sa servire dove Dio l’ha voluto.
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