Naturalmente ci piacciono, conosciamo a memoria i loro pensieri, vorremmo imitarli. Al tempo stesso però ci mettono a disagio, quasi ci infastidiscono. Guardando ai Santi capisci come possa essere breve la distanza che separa l’ammirazione dalla banale pazienza, l’invidia dalla sopportazione, la passione dall’indifferenza. Il problema è che, con o senza aureola, i testimoni della fede sono tanto, tantissimo, troppo.
A leggere i curriculum delle loro virtù, ti sembra di stare sulle montagne russe, provi vertigine, ti vengono i brividi: umiltà, preghiera costante, gioia. E ancora: amore vero, concreto, per gli ultimi, sobrietà, serenità nelle prove più dure, fiducia totale nella Provvidenza. Mattoni di bene a costruire grattacieli che paiono irraggiungibili dalla gente comune. Forse perché poco avvezza a scalare la vita usando la 'corda' della preghiera, collante tra la terra e il cielo. O, più banalmente, per via di una letteratura che ha trasformato uomini e donne abitati dalla grazia in santini da album, con un’unica espressione 'sognante' sul viso e le mani giunte finanche in mezzo al fuoco e alle tempeste. Presenze distanti, persino noiose, quasi estranee alla realtà concreta, quotidiana, che invece, nella realtà, hanno abitato a tutto tondo.
Ecco allora che la festa odierna, Ognissanti, diventa occasione per rendere una volta di più ragione alla verità, per andare alle origini di chi ha scelto Dio e di conseguenza l’uomo, per liberare tanti giganti della carità da quelle incrostazioni di bigottismo che rischiano di renderceli indigesti. Vuol dire che bisogna partire dai difetti, perché i Santi non erano e non sono perfetti, che si deve considerarli uomini e donne come noi, che nei momenti di difficoltà può essere utile guardare alle loro ore di buio. E qui gli esempi si moltiplicano. Da Padre Pio contestato e messo sotto accusa dalla sua stessa Chiesa, al silenzio di Dio che angosciò a lungo Madre Teresa di Calcutta, dalle denunce ingiuste sopportate dal Curato d’Ars al fallimento apparente di Charles de Foucauld morto senza avere ottenuto neppure una conversione. Eppure tanta e tale era la fede, da accettare anche gli ostacoli più duri come un segno d’amore, come esercizi di una volontà da purificare. Una sapienza che in santa Teresa di Gesù Bambino diventa accettazione riconoscente delle proprie debolezze, accolte come prova del primato assoluto del Signore nella sua vita. Perché la santità in fondo non è che seguire in toto e per sempre il disegno di Dio sulla nostra esistenza. A dispetto delle imperfezioni, delle spigolosità di carattere, magari persino di un ego ingombrante, da addolcire con la costanza della preghiera e il calice amaro delle sconfitte. Il resto viene di conseguenza, compresa la tenacia della carità, quella che ti fa accorgere degli altri non una tantum ma sempre, ora dopo ora verrebbe voglia di dire. I poveri infatti, gli ultimi, gli scartati, per dirla con papa Francesco, hanno fame ogni giorno. E hanno freddo, e bisogno di attenzioni, e desiderio di qualcuno che li ascolti. Aiutarli di tanto in tanto, per quanto importante, non basta. Occorre il coraggio e la forza, la testardaggine che non è solo umana, della solidarietà quotidiana, la pazienza di guardarli negli occhi, il riconoscimento di un fratello nel volto dell’abbandonato. Gli ultimi, le loro ferite, spiega il Papa, come carne di Cristo, come segni del suo corpo crocifisso da raggiungere anche nelle periferie più estreme con la delicatezza e la tenerezza della Madre Chiesa.
Loro, gli uomini e donne che veneriamo come Santi fanno proprio questo: abbracciano Gesù nel povero ma, prima ancora, riconoscono la propria piccolezza davanti a Dio, accettano di svuotarsi della proprie certezze per farsi abitare da Lui, si lasciano guidare docili dalla fantasia dello Spirito. Ci insegnano la gloria dell’umiltà e la ricetta, da piccoli quali sembrano, per essere grandi davanti al Signore. La santità si basa, come diceva una mistica, su un unico ingrediente: la dimenticanza. Del proprio io, della propria autosufficienza. Di se stessi.