venerdì 24 marzo 2023
Dopo le riforme degli enti territoriali attuate nel 1990 e nel 2014, il riassetto è rimasto a metà. L’accorpamento dei comuni non avanza e le aree metropolitane non sono mai decollate
La riorganizzazione delle Province è un percorso che deve ripartire
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La questione della riorganizzazione degli enti territoriali e locali ha vissuto una stagione prospera nei decenni passati. Era unanime la consapevolezza che l’assetto vigente fosse inadeguato: a parte le incertezze che accompagnavano l’ordinamento delle regioni, a livello locale l’organizzazione rispondeva, e continua in parte a rispondere, a un criterio di carattere storico: i comuni, nati da profonde tradizioni, e le province, che erano espressione del decentramento delle funzioni statali, come le questure, le prefetture, i provveditorati agli studi (ora uffici scolastici regionali, che sono uffici periferici del Ministero della pubblica istruzione, come lo erano del resto gli istituti scolastici).

Questo modello non era idoneo a gestire una amministrazione che si era andata evolvendo fino a diventare in prevalenza amministrazione di servizi anziché solo di funzioni autoritative. La gestione dei servizi richiede un ambito territoriale diverso dai piccoli comuni e le grandi città hanno bisogno di una collaborazione istituzionali con i comuni limitrofi per gestire efficacemente ad es. il trasporto pubblico. I comuni italiani, invece, sono per il 70% (69,98 per l’esattezza) al di sotto dei 5.000 abitanti e la tendenza è nel senso di un progressivo spopolamento dei comuni minori. Le province hanno una dimensione connessa al decentramento delle funzioni statali e non sono una “comunità”: per capirlo in modo semplice, mentre chi dice di essere “italiano”, o “milanese”, o “lombardo” indica l’appartenenza a un territorio, chi dice di essere “della provincia di Milano” vuol significare solo che è di un paese vicino a Milano.

La legge 142 del 1990 aveva intercettato la necessità di adeguamento, introdotto norme importanti sull’accesso e sugli istituti di partecipazione, e, soprattutto sul versante dei comuni, aveva cercato di avviare la riorganizzazione del territorio con la istituzione delle aree metropolitane e delle unioni fra comuni per gestire singole funzioni (ad es. i vigili urbani, che per i piccoli comuni non superano l’unità,) e promuovendo le fusioni dei comuni, con la previsione che al posto di quelli soppressi possano istituirsi dei “municipi”. Venivano inoltre stimolate le aggregazioni sovracomunali attraverso gli strumenti dei consorzi e delle convenzioni fra comuni.

Sul versante delle province la legge 142 non aveva potuto incidere più di tanto perché erano previste nel testo della Costituzione, ma si era intanto diffusa, fino a diventare dominante, la tesi che andassero soppresse per dar luogo a enti composti dai comuni associati: la “vasta area” adeguata ai nuovi servizi, con organismi, come le Asl, che si andavano sviluppando ad opera della legislazione settoriale. Per la cronaca, erano contrari alla soppressione, ma non in modo manifesto, solo alcuni degli ex democristiani che avevano trovato l’accordo con l’ex Pci al quale spettava il presidente della regione e il sindaco del comune capoluogo, mentre la provincia era lasciata al Ppi, che arrivò a governarne 53.

La successiva legge Delrio (n.56 del 2014) si è collocata ancora in questo contesto culturale e ha anticipato la soppressione delle province sostituendo l’elezione popolare degli organi con la nomina di secondo grado da parte dei comuni, ma ha dovuto assumere il carattere di legge-ponte, tanto da ripetere più volte «in attesa della riforma del titolo V della Costituzione». Infatti nello stesso periodo fu presentata, e poi approvata nell’aprile del 2016, la riforma costituzionale che comprendeva la soppressione delle province. Come si sa, il successivo referendum non confermò la riforma, perché prevalsero le perplessità sul suo impianto complessivo. Così il ponte della Delrio è restato senza una delle discese ed anche gli stimoli a una nuova, complessiva riorganizzazione del territorio sono rimasti senza stimoli e hanno avuto scarsa attuazione perché la vischiosità delle tradizioni ha posto un freno all’accorpamento dei comuni e alla realizzazione delle aree metropolitane. È chiaro quindi che la normativa va modificata e integrata.

In questo contesto viene ora prospettata in alcuni disegni d i legge una mini-riforma che prevede di rendere nuovamente elettivi gli organi delle province. La riforma è del tutto inadeguata (come ha osservato Stefano De Martis in questo giornale) e implicherebbe di fatto l’abbandono del disegno riformatore rendendo più difficile il riordinamento territoriale e l’eliminazione delle sovrapposizioni delle competenze. Avrebbe, in sostanza, solo l’effetto di restituire alla politica i posti che le erano stati sottratti attraverso l’elezione di secondo grado ed è sbagliata anche sul piano della legittimazione della politica: il problema, in effetti, non è quello dei risparmi sui costi della politica, che sarebbero irrisori, come lo sono stati quelli derivanti dalla riduzione del numero dei parlamentari, ma quello della ripresa di una legittimazione basata sulla riconoscibilità e valutabilità delle competenze e delle corrispondenti responsabilità. L’elezione diretta di un organo non rappresentativo di una comunità reale e del quale la gente ignora le funzioni darebbe un ulteriore incentivo all’astensionismo che va dilagando.

Quanto all’assetto delle competenze: si parla molto, inutilmente, della semplificazione dell’attività amministrativa, ma non si tiene conto del fatto che a monte di questa vi è una densa complessità organizzativa derivante dall’esistenza di più enti con competenze in parte sovrapposte. Anche qui un esempio semplice: per fare una serie di lavori edili sono necessarie due pratiche, identiche, al comune e alla provincia. Sono poche le “pratiche” che non comportano il passaggio da più enti o organi. L’invito che risale a San Tommaso (entia non sunt multiplicanda sine necessitate) è del tutto disatteso. E infatti sullo stesso territorio incide un gran numero di enti: oltre all’Unione Europea, lo Stato, le regioni, le province, i comuni e le loro unioni, e poi le aree metropolitane, le comunità montane i parchi naturali, le autorità di bacino, quelle sanitarie, dei trasporti, e così via.

Vi sono quindi ragioni profonde per riprendere, approfondire e portare a compimento il disegno riformatore che era maturato negli scorsi decenni. Le province vanno soppresse senza rimpianti e si deve promuovere più che in passato la riaggregazione dei comuni piccoli, con forti incentivi e con una attività culturale che finora è mancata per spiegare che in effetti le aggregazioni non sottraggono ma aumentano la possibilità per i cittadini di incidere sulla risposta ai loro diritti. Non sono state ad esempio sottolineate le potenzialità che offrono i municipi: la legge non stabilisce le loro funzioni ma ne lascia la determinazione allo statuto comunale. Poiché i comuni piccoli hanno formalmente le stesse competenze di quelli grandi, ma riescono in concreto a esercitarne poche, le funzioni che eserciterebbe il nuovo, più grande, comune sarebbero più consistenti e i municipi risultanti da una fusione di comuni potrebbero mantenere quasi tutte le competenze che esercitavano i comuni soppressi.

Tutte le forze politiche, comprese quelle di Governo, vanno predicando che bisogna cessare con le piccole misure che non aggrediscono le cause delle disfunzioni e che bisogna ripensare in termini strutturali e di lungo periodo. Se così è non bisogna perdere la possibilità di una effettiva riforma dell’amministrazione a livello locale, con tutte le conseguenze che può comportare sulla gestione dei servizi e sul rapporto fra i cittadini e la politica.

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