La proprietà come funzione sociale
sabato 17 aprile 2021

Caro direttore,
domenica il Papa ha detto una cosa piuttosto forte a cui è seguita una reazione pubblica piuttosto debole. Ha parlato della proprietà privata, a proposito del brano degli Atti degli apostoli sulle comunità dei primi cristiani. In realtà il Papa ha solo recuperato un antico insegnamento della Dottrina sociale della Chiesa, quando afferma che la proprietà privata non è un diritto assoluto e intoccabile: tra i valori della Dottrina non c’è l’individualismo possessivo che rende la proprietà una cosa sacra. Anzi, il principio di fondo cui ispirarsi è la destinazione universale dei beni: tutto deve avere una funzione sociale.

Anche la nostra Costituzione lo riconosce, specifica i limiti della proprietà per assicurarne la funzione sociale e renderla accessibile a tutti. Si parla di «funzione sociale» – nella Dottrina e nella Costituzione – anche perché la ricchezza e la povertà sono costruzioni sociali, non fatti naturali e inevitabili. Sono scelte politiche: dal modo in cui si trasmette la proprietà deriva per esempio la concentrazione o la diffusione della ricchezza. Pertanto uno Stato che si pone come obiettivo una maggiore uguaglianza – o anche solo una minore diseguaglianza – non può fuggire il tema della redistribuzione dei redditi (tanto è vero che da noi il tributo ha una funzione anche extra-fiscale, ossia non copre solo le spese dello Stato, ma garantisce anche la redistribuzione) e neppure fuggire il tema della funzione sociale della proprietà: il suo uso e la sua redistribuzione.

O il suo calcolo quando è opportuno e quando no, come per il Reddito di emergenza. E poi c’è anche una proprietà intellettuale, che in questi giorni ha particolare rilievo per i vaccini anti-Covid: anche qui ci sono cancelli e muri che impediscono l’accesso equo e sostenibile ai prodotti sanitari salvavita. Siccome la pandemia non scherza, là fuori, allora va trovato qualche equilibrio tra investimenti, idee e obiettivi degli Stati, perché se vogliamo continuare a porre la persona al centro della nostra azione politica, allora le scelte sarebbero abbastanza conseguenti. La proprietà, materiale o immateriale che sia, richiede ogni tanto un ripensamento, un discernimento, perché il rapporto tra povertà e ricchezza varia, è congiunturale, va bilanciato con intelligenza e con gli strumenti opportuni, tra cui quelli fiscali. Anche a noi, come comunità cristiana, fa bene ogni tanto riparlare di proprietà, perché il rapporto tra cristianesimo e ricchezza va spesso... aggiornato, altrimenti rimane fuori dalle nostre riflessioni e dalle nostre azioni concrete, diventando un dato di fatto indiscutibile.

E invece: pagare le tasse, disporre di beni e patrimoni, ragionare sulle povertà del territorio, sulla mancanza di lavoro o sulla dignità del lavoro sono passaggi obbligati nel discernimento di una comunità cristiana, tanto quanto la catechesi. Peraltro il fondamento della proprietà sarebbe esattamente il lavoro: è la sua fonte d’origine, il suo modo d’acquisto e di utilità sociale. Il suo atto di partenza rimane la relazione tra l’uomo e le ricchezze della natura attraverso il lavoro: un bene per tutti, accessibile a tutti, una priorità. Laborem exercens. Il lavoro, il capitale umano: ecco l’obiettivo. Dunque il Papa, accennando alla proprietà, ha aperto una dimensione importante che ci chiama a un più di riflessione per promuovere il lavoro e il bene comune. Liquidarlo ideologicamente significa non capire cosa stia effettivamente succedendo in questo tempo.

Portavoce Alleanza contro la povertà

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