martedì 16 aprile 2024
Monica Minardi da domenica rieletta presidente di Medici senza Frontiere Italia: «Sono solo una goccia nella grande goccia che Msf rappresenta per le gravi crisi umanitarie»
Monica Minardi, 54 anni, rieletta presidente di Medici Senza Frontiere Italia

Monica Minardi, 54 anni, rieletta presidente di Medici Senza Frontiere Italia - Msf

COMMENTA E CONDIVIDI

Donna, moglie e madre, medico di Medicina generale (l’antico “medico di famiglia”) con la passione per la Medicina di emergenza e le vittime delle grandi ingiustizie. Da domenica sera è presidente rieletta della sezione italiana di Medici senza Frontiere (MSF), l’organizzazione non governativa che nel 1999 ha vinto il Nobel per la Pace e che opera in 80 Paesi con 65mila operatori umanitari. Eppure Monica Minardi, 54 anni, smitizza: «MSF è una goccia nell’oceano delle grandi crisi umanitarie, io nemmeno una goccia, tutt’al più vapore acqueo». Nei teatri di guerra e carestia è stata fin da ragazzina, quando l’idea di studiare medicina iniziava a dare forma al suo vero interesse, «provare a sanare le differenze tra chi – come me – senza meriti è nato dove esistono cure e diritti, e chi senza demeriti è nato dove non c’è speranza. Ancora oggi per me la medicina ha un aspetto quasi artistico, nell’incontro ravvicinato con il paziente, nel tenere il mio sguardo al livello del suo, nel toccarlo, nel creare quel rapporto unico per cui si fiderà di me…». Esperienze che prova nelle aree più povere del mondo come dietro l’angolo, nel suo studio di “medico di famiglia” a Imola, perché, assicura, quando si è malati si diventa tutti vulnerabili e tutti hanno bisogno di quello sguardo: «L’etica del medico cura tutti indistintamente».

Come è nata la sua passione per gli ultimi?

Fin dall’adolescenza mi hanno attratta le tematiche del Sud del mondo e da studentessa ero già in missione con i frati cappuccini a Kambatta, in Etiopia. Non c’erano i cellulari ed eravamo veramente sperduti, io guardavo padre Leonardo e il suo team di frati chirurghi che affrontavano ogni genere di situazione, erano esperti nell’allungamento dei tendini, perché i bambini erano costretti a letto per mesi e gli arti si deformavano. Oggi che sono medico da 30 anni, guardo indietro i semi che hanno segnato le tappe della mia vita e padre Leonardo è uno di questi. In realtà mi ha segnata anche il caffè con il sale grosso, come si usa da quelle parti: noi facevamo facce disgustate, ma gli etiopi erano disgustati a pensare di metterci lo zucchero, insomma ognuno dà per scontato che ciò che fa lui sia la regola… è stata una bella lezione per aprirmi lo sguardo. Sempre durante l’università sono stata in Brasile con il Centro missionario di Imola, alla favela del São Bernardo, dove poco dopo la mia partenza don Leo Commissari è stato ucciso: era un sacerdote scomodo, lottava contro la criminalità, la droga e la tratta della prostituzione, lui non era vicino alle vittime ma assieme. Tornata a casa mi sono detta «ecco cosa voglio fare» e di punto in bianco ho lasciato il reparto di oncologia pediatrica, dove facevo il tirocinio imparando moltissimo, e sono passata alla medicina generale, tra notti in Pronto soccorso e guardie mediche.

Minardi da studentessa nelle prime missioni 'sul terreno'

Minardi da studentessa nelle prime missioni "sul terreno" - Msf

Una scelta controcorrente.

Mi ero innamorata del lavoro di generalista e poi volevo ripartire al più presto per il mondo, così dopo la laurea sono andata a Liverpool per il corso di Medicina tropicale, requisito indispensabile per entrare in MSF… Già allora guardavo a Medici senza Frontiere, mai avrei immaginato di diventare un giorno presidente! In realtà me ne stupisco anche oggi. A quel punto sono partita per l’Eritrea con l’Associazione missionaria internazionale di Faenza, quattro mesi in un dispensario tenuto da suore laiche organizzatissime, e tornata in Italia ho fatto subito domanda per MSF. La selezione è stata tosta ma mi hanno reclutata, solo che la vita ti ribalta i piani: nel frattempo avevo conosciuto quello che oggi è mio marito.

Conosciuto in corsia?

Veramente in discoteca. La musica e il ballo mi hanno sempre affascinata e lui ballava benissimo, è stato colpo di fulmine. Ma prima di sposarci doveva sapere bene chi fossi e anch’io dovevo conoscere l’uomo con cui avrei costruito la mia famiglia, così sono partita con MSF per l’Angola durante la guerra civile come responsabile del reparto pediatria. Ha superato la prova, perché sei mesi dopo, al ritorno, mi stava ancora aspettando! Ci siamo sposati nel 2001 con rito misto, io sono cattolica, lui è senegalese e islamico, oggi siamo sempre innamorati e abbiamo due figlie orgogliose della loro doppia cultura, la grande ha 21 anni e studia medicina, la piccola ne ha 17 e una sola certezza: «Mamma, non farò mai il medico». L’Angola, è stata l’esperienza più drammatica della mia vita, Kuito era una città assediata, impossibile arrivare via terra, il nostro aereo dovette atterrare a spirale perché tutto intorno sparavano. Ovunque c’erano adulti e bambini amputati a causa delle mine, noi di MSF lavoravamo nell’ospedale governativo, in pediatria avevamo 80 posti letto per 130 bambini ricoverati, due per lettino, poi scoppiò anche un’epidemia di meningite. La cosa sconvolgente è che quel livello di violenza derivava dallo sfruttamento criminale della popolazione angolana: la loro condanna era il sottosuolo zeppo di diamanti, era inaccettabile e in quel periodo la mia fede andò in crisi di fronte a tanto orrore, ma mi dissi «nel mio piccolo faccio quello che posso», la cosa che sentivo più vicina all’essere cristiani.

Essere madre e curare il mondo non è vita facile.

Non potevo più partire, solo nel 2009 presi parte a una breve missione in Pakistan, a Mardan, dove un milione e mezzo di sfollati interni si erano concentrati per sfuggire ai talebani. Ma un mese dopo ero di nuovo a casa, sia perché le bimbe erano piccole, sia per motivi economici, MSF stipendia il personale, ma ovviamente la paga è molto inferiore a quella di medico. L’anno dopo, la grande scelta: una notte in ospedale lessi che nel Regno Unito cercavano medici e distrattamente mandai il curriculum, invece mi chiamarono davvero. In Inghilterra potevo finalmente prendere quella specializzazione in Medicina d’emergenza che nel mio Paese non mi sarei mai potuta permettere, e in Italia siamo rientrati dieci anni dopo… proprio durante il Covid! Con la pandemia c’era troppo bisogno di medici, ero sempre in ambulatorio e non sono più partita, poi, non so neanch’io come, nell’aprile 2022 mi sono trovata presidente di MSF, un’emozione immensa: mettevo al servizio di un’organizzazione che non si gira mai dall’altra parte la mia competenza di medico e la passione per i valori del movimento. L’altro ieri la rielezione a presidente e tanta gioia nel cuore.

Il suo matrimonio ha a che fare con questa passione?

Nei primi anni ’90, non secoli fa, mio marito era arrivato dal Senegal seduto in aereo, allora non c’erano morti in mare, si poteva partire come oggi partiamo noi italiani, aveva un visto turistico che si è trasformato in un visto da lavoro appena ha trovato un impiego, era normale, non occorreva sfidare il mare alla disperata. Era un migrante economico come oggi lo sono i nostri figli: in Senegal non stava male, ma era un ragazzo che aveva un sogno, come i nostri ragazzi che oggi vanno a studiare e lavorare all’estero. Anche io quando sono andata in Inghilterra non stavo male qui, ma avevo il mio sogno. È strano che i giovani africani abbiano un sogno pure loro? Oggi ci sono passaporti “importanti” con cui viaggi ovunque e altri passaporti che ti escludono, sembra un sistema studiato per mantenere una diseguaglianza a livello mondiale. Ma se guardi la Terra dallo spazio ti appare tutto così incredibile, nel nostro sassolino sospeso nel vuoto la mobilità è permessa o vietata, e dietro ci sono sempre soldi e potere.

Monica Minardi con il marito senegalese: hanno due figlie

Monica Minardi con il marito senegalese: hanno due figlie - Msf

I suoi anni di presidenza MSF sono caduti in un periodo particolarmente difficile…

Tra pandemia e guerre sono stati due anni duri, ma guardi che le crisi umanitarie non mancano mai, anche quando non se ne parla, basti pensare ad Haiti, al Sudan, al Tigrai. L’anno scorso ero in missione proprio nel Tigrai, nel nord dell’Etiopia, e i giorni scorsi sono stata a bordo della Geo Barents, la nave di MSF. Essere lì sul ponte della nave e assistere al salvataggio da parte dei nostri coraggiosissimi tecnici del soccorso con i gommoni è tutta un’altra cosa, ti sconvolge la gratitudine delle persone che si sentono in salvo, i bambini non ti conoscono ma ti saltano in braccio, diventano persone, non numeri, e lì ti rendi conto che non hanno alternative alla fuga. Io stessa nell’esercitazione di soccorso ho fatto la naufraga per 40 minuti con onde moderate, eppure mi sono sentita male e simulando il passaggio dal gommone alla nave mi chiedevo cosa si lasciassero alle spalle per affrontare tutto questo. Quel giorno abbiamo tratto in salvo 261 persone, anche bambini, e la prima donna che ho visitato era una mamma fuggita dalla guerra in Siria con due figli sotto i tre anni: ringraziava e chiedeva perdono, «a noi dispiace disturbarvi, non vorremmo mai, ma siamo tra il fuoco e l’acqua e l’unica soluzione è l’acqua», diceva, e poi chiedeva scusa «per qualsiasi cosa arabi o musulmani hanno fatto di male a voi, noi siamo islamici ma siamo orgogliosi di non essere come loro». È stato molto commovente. Lei spontaneamente ci ha raccontato delle torture subìte in Libia, ma spesso non va così, dobbiamo aspettare che trovino il coraggio di alzare gli occhi e aprirsi, noi non chiediamo niente, in quella fase traumatica dobbiamo solo ascoltare. Quella mamma era rimasta chiusa al buio per sei mesi in una stanza senza finestre con i bimbi e altre donne. C’erano anche due ragazzine di 15 anni dall’Etiopia, anche loro con i segni delle torture e più volte abusate in Libia… Cose che i giornali raccontano da anni e questo crea assuefazione, non si piange più per loro, invece quando li incontri diventa tutto drammaticamente vero. Appena iniziati i soccorsi, tre motovedette della Guardia costiera e della Guardia di Sicurezza libiche ci hanno raggiunti di gran carriera, con manovre molto pericolose sia per il nostro personale che per i naufraghi, ma siamo stati rapidi nel salvataggio e non sono riusciti a ostacolarci… questa volta è andata bene. Eppure noi continuiamo a fornire soldi e motovedette alla Libia. Quando hanno visto i libici, i naufraghi erano terrorizzati di essere ripresi, spesso accade.

La cosa più dolorosa, per lei medico, qual è in questi casi?

Dover scegliere chi salvare e chi no, è contro l’etica medica. Mi spiego: le direttive italiane del 2023 ci costringono a sbarcare i migranti in due porti successivi, entrambi lontani dalle zone di soccorso, a noi erano assegnate Civitavecchia e Genova. Così, quando salvi le 261 persone devi subito stilare una classifica dei più vulnerabili che scendono nel primo porto, mentre gli altri devono proseguire verso il secondo, ma come decodifichi chi è più fragile? In poche ore puoi capire se una ragazza o un ragazzo sono stati abusati? Magari uno sta isolato e capisci che ha dentro un macigno, ma che ne sai? Tra l’altro devi anche tenere unite le famiglie… Per collegare Civitavecchia e Genova in autobus basterebbero 4 ore di strada, in nave sono occorse altre 26 ore di navigazione, ovvero una spesa immane per noi e altro stress per quella povera gente, con onde di quattro metri e il mare che si riversava sul ponte. Poi da Genova la nave deve tornare a sud, nel Mediterraneo, e quando arriviamo, per molti è tardi. Perché questa politica dei doppi porti che crea costi esorbitanti per noi e ci tiene a distanza dalle aree dei naufragi? Ti chiedi la ratio e la risposta non è bella. L’etica medica resta ben chiara, mi chiedo dove sia l’etica della politica.

Al di là del fenomeno migratorio, tutto il pianeta è un grumo di ingiustizie. Sanità, istruzione, libertà dipendono da dove per caso sei venuto al mondo…

Il cambiamento climatico con i suoi effetti estremi colpisce le aree già vulnerabili, negli ultimi anni c’è stata un’impennata della malnutrizione, Africa Sub sahariana e Asia pagano il prezzo di desertificazioni e carestie, e a questo si sovrappone la logica di guerra, vista come l’unica soluzione possibile, mentre la condivisione delle risorse e la negoziazione non sono nemmeno considerate. Guardiamo adesso cosa accade a Gaza: il 7 ottobre le milizie di Hamas hanno commesso un crimine spaventoso contro l’umanità, ma il massacro che sta uccidendo la popolazione palestinese è senza precedenti, non solo non vengono rispettati gli ospedali e i civili, ma i nostri operatori rimasti là assistono da vicino a un assedio che blocca da mesi al valico di Rafah migliaia di camion carichi di aiuti umanitari. Leo Cans, il nostro capo missione, all’ospedale di al-Shifa vede morire bambini e adulti letteralmente perché non mangiano da settimane, i più fortunati sono vivi grazie al mangime per animali. Il problema allora non è logistico: una popolazione muore di fame per scelte politiche. La guerra è sempre di per sé sproporzionata, ma persino all’interno dei conflitti bisogna tornare all’umanità.

Ci stiamo disumanizzando?

Siccome sei un “migrante”, se muori affogato non hai lo stesso peso specifico di un’altra persona. Nel naufragio di Cutro del febbraio 2023 cento persone sono morte a pochi metri dalla riva calabrese, il mare era molto mosso ma se fosse stata una barca da crociera siamo sicuri che li avremmo lasciati affogare? Seriamente non avremmo mandato i soccorsi? A Palermo abbiamo un progetto universitario a favore delle vittime di tortura in Libia e un ragazzo ci ha detto: «Io da quando sono entrato in questo percorso mi sento di nuovo di appartenere alla specie umana», dopo mesi di stupri utilizzati come arma da guerra credi di non farne più parte. Davvero è un atto così coraggioso il nostro? Non dovrebbe essere normale soccorrere chi è in ginocchio?

Sulla Geo Barents

Sulla Geo Barents - Msf

Lei come presidente di MSF Italia ricopre il ruolo che fu di Carlo Urbani, il medico che nel 2003 isolò il primo Covid, la Sars, salvando il pianeta ma dando la vita. Fu lui a ritirare il Nobel per la Pace nel 1999 e nell’occasione fece un discorso memorabile ai medici di MSF, infiammandovi di passione.

Il fuoco della passione ci è dato dall’azione medica che non distingue, che cura tutti indistintamente, e questo l’indimenticabile Urbani lo viveva con fede profonda. Ma non occorre andare lontano, anche qui in un pronto soccorso italiano la deontologia medica prescinde da tutte le appartenenze. L’altro fuoco di MSF è la capacità continua di metterci sempre in discussione, noi dibattiamo molto, decidiamo tutto in modo collegiale, ribadiamo a noi stessi i princìpi umanitari da rimettere al centro, oggi dimenticati: ci sono leggi internazionali ratificate dagli Stati, come la Convenzione di Ginevra, per cui anche nelle guerre esiste uno spazio umanitario, e le strutture sanitarie e civili non solo non possono essere attaccate ma devono essere protette. Eppure oggi non succede più! Noi interloquiamo sempre con tutte le parti in conflitto, anche quando ero in Angola parlavamo sia con le forze governative che con i ribelli, proprio per avere accesso alle popolazioni colpite. Oggi ci accusano di essere a Gaza e non in Israele, ma ci eravamo già da anni per la situazione tragica, e il 7 ottobre abbiamo offerto il supporto a Israele, ma questo nessuno lo scrive.

Però a volte MSF decide anche di andarsene.

Sono decisioni non facili. MSF fu fondata da personale sanitario e giornalisti insieme, per questo le due anime che ancora guidano le nostre azioni sono da una parte la cura medica ai fragili, dall’altra la testimonianza/denuncia delle prevaricazioni. Il problema però è che a volte la denuncia ci fa perdere l’accesso alle popolazioni, faccio un esempio: in Angola dovevamo urlare al mondo che alla base della guerra c’era il traffico di diamanti, ma saremmo stati cacciati e avremmo abbandonato i poveri, allora cosa scegliere? È un continuo soppesare. In Afghanistan siamo inorriditi dal regime talebano che perseguita le donne, però proprio le nostre operatrici locali con cui portiamo avanti progetti di maternità e salute ci chiedono di restare «se no nessuno parlerà più di noi». Il limite invalicabile sarebbe se dovessero impedirci di lavorare con donne, allora ce ne andremmo. In Tigrai persino Internet era stato oscurato, ho chiesto alla gente se avesse senso che restassimo lì ma ci hanno detto che senza di noi l’intero mondo sarebbe rimasto chiuso fuori. È il grande tema della solidarietà che ci riguarda tutti, perché sarà banale ma anche nel mondo ricco basta ammalarsi improvvisamente per capire quanto conta avere una persona che ti si siede accanto e ti offre la cura. L’atto medico è il momento che ci riumanizza tutti, guardarci negli occhi con i sofferenti ci fa rientrare nell’umanità, abbiamo bisogno anche noi delle loro «ruvide carezze», come diceva Urbani: non c’è alternativa a questa follia della solidarietà!

Quando torna da quei contesti pericolosi, come viene accolta da amici e conoscenti?

La cosa che mi fa più soffrire è sentir dire «che eroi siete!», parole che segnano l’enorme distanza con quelle realtà lontane, capisci con sconforto che certe cose sono incomunicabili, la gente preferisce mettere te su un piedistallo e non farsi coinvolgere. Non siamo noi i coraggiosi, i veri eroi sono gli infermieri e i medici locali, che vivono lì. Prima di tornare a casa chiedo loro di cosa hanno bisogno e sempre rispondono «tu parla, racconta, fai che il mondo sappia». Ricordo un nostro infermiere angolano bravissimo, la cui bambina era arrivata all’ospedale in arresto cardiaco, lui seduto assisteva alla scena mentre noi cercavamo a lungo di rianimarla, ma i soli mezzi che avevamo erano le nostre mani per il massaggio cardiaco e un “pallone Ambu” per la ventilazione. In un Paese ricchissimo di risorse non c’era nulla per intubarla! Non ce l’ha fatta. Due giorni dopo il padre era di nuovo al lavoro per curare gli altri. Dal momento in cui ti fai contaminare da queste ingiustizie, non riesci più a riprendere la tua vita normale, in famiglia e al lavoro hai sempre questa cosa dentro e ti chiedi perché tu hai tutto solo per il fatto di essere nata in Italia e non altrove. Dove nasci non è un tuo merito, pensiamolo, quando apriamo il frigo.

Che cosa nella sua vita non farebbe mai?

Certamente la gettonista.

Come, scusi?

Visto l’estremo bisogno di medici, gli ospedali ormai sono pieni di gettonisti: scegli il tuo turno, vai a casa presto e vieni pagato a gettone come libero professionista. È un principio inaccettabile, ho visto in Inghilterra i danni che ha creato questo sistema, è diventato un mercato e molti medici non vogliono più essere assunti in ospedale, preferiscono il modello consumistico. In questo modo guadagni molto di più, ma non fai parte di un team, non cresci insieme ai colleghi, non condividi la vita ospedaliera e gli obiettivi. Io scelgo di essere medico dentro la sanità pubblica e curare tutti, ancora di più chi non ha mezzi. Il Covid ci ha mostrato in modo drammatico la differenza tra una sanità territoriale che funziona o no, si era detto “investiamo sul territorio, mai più errori”, invece la situazione la vediamo: liste d’attesa infinite, i Pronto soccorso che esplodono, colleghi che si licenziano dagli ospedali ed emigrano all’estero perché schiantati da orari disumani e da scelte politiche incomprensibili. Di fronte a tutto questo posso io abbandonare la nave? Ho detto no anche ai Cau, Centri di assistenza e urgenza in Emilia-Romagna, strutture intermedie che non promuovono la territorialità e anzi depauperano ancora di più la sanità: i medici di Pronto Soccorso vedono che i colleghi dei Cau hanno i casi meno gravi e sono pagati uguale, qualche domanda se la fanno. C’è un approccio alla medicina sempre più consumistico, ma facciamo attenzione: ormai anche in Italia esistono situazioni di vulnerabilità estrema e la gente rinuncia a curarsi perché non ha soldi.

Le sue figlie assorbono tutto questo?

Sono due ragazze fortunate, hanno già mille esperienze. Quando le aspettavo avevo contratti precari, quindi ho lavorato fino al mese prima del parto e ho ripreso sei settimane dopo e mio marito si è preso teneramente cura di loro, come poi in Inghilterra quando facevo le notti. Hanno respirato l’armonia familiare… Per Pasqua e poi anche per la fine del Ramadan abbiamo fatto una bella festa in casa con gli amici. Le abbiamo sempre avvertite, «voi avete un baule più pesante da trascinare perché portate due culture, però se lo aprite ci trovate dentro molte più cose: apritelo!».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI