La prepotenza normalizzata
mercoledì 23 agosto 2023

Il bimbo – ha 8 anni appena compiuti, è di buona famiglia – torna dai tappeti elastici sulla spiaggia della Romagna felice di aver giocato coi grandi di 10 o 11. Ripete di aver imparato che bitch vuol dire donna in inglese e si arrabbia quando la mamma scuote la testa, «sono stupidate. Non dirla mai più». Ma la parola resta, gira nelle canzoni, torna nei discorsi davanti al cellulare, nelle chat, nei nomignoli delle prime piccole compagnie, bro e bitch, “fratello” per i maschietti e “prostituta” per le femminucce.

Dove comincia, e come si forma, l’idea che gli uomini hanno delle donne oggi? Lo sappiamo? Ce lo siamo davvero mai chiesti, in anni di femminicidi, e di stupri, violenze, abusi? Dei danni gravissimi che la disparità di genere – diminuita certo, ma mai annullata – stava compiendo nel nostro Paese, esperti e associazioni e operatori impegnati sul campo a curarne le ferite (per lo più donne, ovviamente) parlano da anni. Inascoltati. Più spesso, trattati come pasdaran, talebani del femminismo, esagitati accecati dall’ideologia anti-patriarcale. Vengono in mente certe accuse di esagerazione e certi dibattiti surreali innescati dalle “palpate” andate in onda persino in diretta tv, per poi essere sminuite nei tribunali: « Non c’è niente di male, suvvia». Perché tra la palpata e lo stupro, s’è sentito dire, c’è differenza. La cruda verità invece è che quel che accaduto a Palermo quest’estate non è un fatto nuovo, non dovrebbe sconvolgerci. Così come non dovrebbe sconvolgerci che in queste ore, sui social, dove è scattata l’indegna caccia al video delle sevizie subite da una ragazzina di 19 anni da parte di un branco di coetanei, compaiano i messaggi insopportabili degli stessi autori di quella violenza: «Quando tutta Italia ti incolpa per un fatto privato, ma nessuno sa che sei stato trascinato dai tuoi amici» (faccina che ride di contorno). Roba mia, lo stupro. Roba mia, una donna. E «non ho fatto nulla di male», «sono stati i miei amici a dirmi che lei ci stava». I miei fratelli, appunto, e là fuori le prostitute, o le donne, che è lo stesso. Oggetti inanimati da manipolare e usare, palpare, abusare, calpestare. Quando non vanno bene o si ribellano, da minacciare, picchiare, uccidere. Anche questo, è lo stesso.

Se il dato drammatico con cui dobbiamo fare i conti è la “normalizzazione” della violenza sulle donne – questa concezione maschile generalizzata e ancora diffusa tra le nuove generazioni che le riduce a cose e come cose le usa e getta – si deve tornare alla domanda iniziale: sappiamo quando Angelo, Gabriele, Cristian, Elio (sono i nomi di alcuni fra questi stupratori, valgono per tutti gli altri, da Primavalle in giù) hanno iniziato a pensare che una ragazza, una donna, se la fai bere, te la puoi portare nel pertugio d’un cantiere e seviziarla in ogni modo, per ore, senza pensare di far nulla di male? Sappiamo come è cresciuta in loro quest’idea? Cosa l’ha nutrita? La sensazione è che no, non lo sappiamo. Perché per troppo tempo non ce lo siamo domandati.

Abbiamo lasciato correre, sull’educazione alla parità di genere, pensando che sia un fatto di statistiche se le donne non ricoprono incarichi di potere, se sono escluse da certi percorsi di studio o di lavoro, se si fanno carico quasi del tutto degli oneri familiari e di quelli di cura parentale, se sono pagate sistematicamente meno dei loro colleghi uomini. Abbiamo chiuso un occhio sulle pubblicità, e l’immagine del sesso femminile veicolata dai media e dalla tv, per non essere tacciati di moralismo negli anni della rivoluzione dei costumi. Ci siamo ripetuti che non c’è niente di male, se nei testi della musica trap che i nostri figli divorano si parla di droga, di stupri, di violenze, perché sono solo canzoni, e in fondo anche noi le ascoltavamo quando avevamo la loro età. Da cosa è nata cosa. In seno alla disparità nel corso degli anni è cresciuto prima il senso di superiorità, poi il disprezzo, infine la violenza e l’odio, col senso di impunità. Così le statistiche sono diventate carne, figlie e madri e sorelle stuprate, picchiate, uccise. Volti e vite spente per sempre, come quella di questa ragazza di Palermo, che con la vergogna di un orrore indicibile dovrà convivere per sempre.

Ora – giustamente – invochiamo in ogni dove percorsi di formazione nelle scuole per invertire la tendenza e rimettere nei nostri figli la luce del rispetto delle donne, come se ad ogni angolo di strada ci fossero educatori e docenti pronti con la bacchetta magica a scambiare due ore di geografia con due di educazione alla parità dei diritti. E come se due ore, o quattro, bastassero. Nell’Italia in cui cresceranno, però, quella parità, pur con tanti progressi, non è ancora raggiunta. Il cambiamento culturale che faticosamente cerchiamo e che è pur cominciato deve essere costruito prima (prima che nelle scuole e prima degli stupri e dei femminicidi) e altrove. Non deve essere più, mai più – da adesso, a ogni livello, in ogni casa, ufficio, tribunale, circolo, palestra – normale che una donna valga di meno. Se provassimo, ciascuno per la sua parte e per il suo ruolo nella società, a ricominciare da qui?

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