venerdì 23 gennaio 2015
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«Tutto quello che serve», promise Mario Draghi il 26 luglio 2012, in piena crisi del debito sovrano, quando il termometro dello spread segnava nel nostro Paese un temperatura da capogiro, oltre i 500 punti. «Whatever it takes» per salvare l’euro, disse il presidente Bce. Con il varo di un QE, cioè di un Quantitative easing, più robusto delle attese – 60 miliardi stampati ogni mese per comprare obbligazioni pubbliche e private dell’Eurozona fino al settembre 2016 – Draghi ha mantenuto la promessa. Piegando l’ideologia del rigore tedesco, ha inaugurato di fatto una nuova era per la Bce e – si spera – per l’Europa tutta. Se le altre istituzioni comunitarie, Commissione e Consiglio Ue in primis, sapranno afferrare stretto il testimone, l’Europa potrebbe finalmente raccogliere quel “dividendo monetario della globalizzazione” sul quale concordano i 350 economisti che in Italia e all’estero hanno firmato il manifesto–appello per una “nuova Bretton Woods” lanciato anche su queste colonne. L’istanza dell’ottobre scorso perorava anzitutto il varo di un ampio piano di acquisto titoli da parte della Bce. Da coniugare con politiche fiscali espansive e l’armonizzazione fiscale nell’Eurozona. Per quanto riguarda l’allentamento del Patto di stabilità e crescita, si è ottenuto finora solo un piccolo ma beneaugurante assaggio con le nuove regole della Commissione. Sull’armonizzazione fiscale, invece, nel semestre italiano di presidenza Ue il passo è stato ben più spedito. Ma il vero cambio di marcia arriva proprio dalla decisione assunta ieri all’unanimità dal consiglio dell’Eurotower. Qualche osservatore ha paragonato il Vecchio Continente incapace di scrollarsi di dosso la crisi all’Impero asburgico d’inizio Novecento dilaniato da tensioni etniche, economiche e sociali. Uno che se ne intendeva di imperi a rischio disintegrazione, l’uomo senza qualità di Robert Musil, ammoniva allora: «Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente che gli stipiti sono duri». Draghi ha spalancato la porta. Avvisando contemporaneamente quelli che domani oltrepasseranno la soglia. Il messaggio all’Europa dell’austerità incarnata nel rigore è chiaro: mantenendo strettamente i suoi compiti istituzionali, avvicinare cioè l’inflazione al 2%, la Bce intende perseguire attraverso il QE obiettivi che vanno ben oltre la pur ardua lotta alla deflazione. La mossa è strategica, dovrebbe rilanciare il mercato del credito e innescare un calo di tutti i tassi d’interesse, riducendo il carico di debito. Per questa ragione è di fondamentale importanza – ed è probabilmente il vero capolavoro diplomatico di Draghi – che la legittimità del cosiddetto bazooka sia stata riconosciuta con voto unanime dal consiglio. Tedeschi inclusi. Certo, per strappare il via libera corale, il presidente ha dovuto ridurre la condivisione del rischio da parte dell’Eurotower al 20% (la restante parte è a carico delle singole Banche nazionali). Ma il fatto di utilizzare una misura non convenzionale di politica monetaria avvicina per la prima volta, almeno nelle ricadute potenziali, il mandato della Bce a quello della Federal reserve americana. Che ha addirittura agganciato il suo Quantitative easing all’obiettivo di riportare il tasso di disoccupazione sotto la soglia del 6,5%. Come dire: prima il lavoro, prima la crescita e dopo tutto il resto. Rastrellare titoli di Stato in un’Eurozona afflitta da 9.200 miliardi di debito è in ogni caso un’operazione che non ha precedenti. I singoli Paesi vedranno ridursi anzitutto gli interessi da pagare sulle emissioni pubbliche.Allo stesso tempo, grazie all’atteso aumento dell’inflazione indotto dalla mole di miliardi, più di mille, iniettati nel sistema, la crescita nominale aumenterà facendo scendere il temibile rapporto tra debito e pil. La cinghia di trasmissione all’economia reale del QE è poi la rimodulazione dei bilanci bancari. Che dovrebbe liberare risorse dai forzieri degli istituti dai quali l’Eurotower avrà acquistato titoli – tema sensibile soprattutto per quelli italiani, ingolfati da Bot e Btp –incentivando le banche a investire il denaro in modo più remunerativo, a partire dai prestiti ad aziende e famiglie. I singoli Paesi non devono tuttavia prendere quello della Bce come un regalo fine a sé stesso. E tenere d’occhio gli stipiti. Senza le riforme, a partire da quella del mercato del lavoro richiamata dallo stesso Draghi, i benefici di una politica monetaria ultra–espansiva vanno a farsi benedire. Il governatore pensava forse in questo caso all’Italia e al suo pezzo di corresponsabilità nel favorire e dare credibilità alla svolta monetaria. Così come non dovrebbero sfuggire al cancelliere Merkel gli espliciti richiami circa l’urgenza di stimolare una domanda interna tedesca che bilanci in qualche modo il surplus dei conti con l’estero, altro fattore destabilizzante per l’Eurozona, tanto quanto l’alto debito italiano. Anche Berlino, quindi, deve fare la sua parte con i miliardi stampati dalla Bce alimentando spesa pubblica e privata. Un messaggio indiretto arriva infine alla Commissione Ue: ci vuole coraggio per superare l’ideologia dell’austerità. Che ha finito per plasmare la reazione europea alla crisi del debito. Assumere come uniche medicine disciplina e rigore ha finito per minare il risanamento dell’economia reale e la vita stessa dei cittadini europei più in difficoltà. La Bce non ha posto preclusioni ad alcun Paese per l’acquisto di titoli pubblici, Grecia inclusa, che dovrà solo rispettare le regole concordate sulla finanza pubblica. Il fine delle politiche monetarie – questo in sintesi il messaggio delle svolta celebrata ieri – sono lo sviluppo e la lotta alla disoccupazione, non il semplice tirare a lucido i conti. Così Draghi ha indicato all’Europa i nuovi «compiti a casa» e come varcare quella porta.
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