martedì 26 aprile 2016
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«Guardia di finanza! No, perché non bastava... due "carabinierini", no. Guardia di finanza! Poi destinare a ’ste cose il Procuratore aggiunto...». E ancora: «i pm non sono..."mezza botta", cioè sono quelli della Dda, vedi tu, al posto della criminalità organizzata fanno queste cose...». Sono increduli, persino scandalizzati alcuni degli intercettati dell’inchiesta sull’«ospedale degli orrori» a Reggio Calabria. Ma come? I magistrati invece di occuparsi di ’ndrangheta «fanno queste cose»? Cioè si occupano di chi ha falsificato le cartelle cliniche per coprire gravissimi casi di malasanità, aborti, bimbi e mamme morti di parto, invalidità e danni irreversibili. Bastava muovere due carabinieri, possibilmente ancora senza esperienza, per fatti così secondari... Già, questa volta non c’è la ’ndrangheta. Ma, denuncia il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, nell’intervista ad "Avvenire", «questo ci preoccupa ancora di più». E spiega. «Contro la ’ndrangheta la strada è chiara, ormai la conosciamo bene. Ma quando, come in questo caso, ci sono settori pubblici che vengono gestiti in modo scorretto, a prescindere dalla ’ndrangheta, è scoraggiante». Ma questo, evidentemente, per i medici coinvolti non è importante. Sono solo «’ste cose». Medici, persone laureate, di cultura, non boss o picciotti d’Aspromonte o dei quartieri-ghetto di Reggio Calabria. Ma anche per loro a quanto risulta dagli atti dell’inchiesta è "normale" violare la legge per lucrare sulla pelle – questa volta in modo letterale – di persone del tutto indifese come gestanti e neonati. Non sono ’ndranghetisti, ma – secondo le prove raccolte e rese pubbliche – usano potere e omertà come gli ’ndranghetisti. Non tollerano regole e trasparenza, non accettano responsabilità, non vogliono pagare errori e negligenze, sono sicuri dell’impunità. Comportamenti non solo loro, purtroppo. Ancora una volta la polemica innescata dalle parole sopra le righe del neopresidente dell’Anm, Piercamillo Davigo, si è fermata sulla classe politica, nuovamente messa all’indice. Ma proprio la vicenda di Reggio Calabria ci avverte, per l’ennesima volta, che non c’è solo "la politica" come non c’è solo "la ’ndrangheta". Il vero dramma dell’Italia è che l’asticella della percezione dell’illegalità per tanti, comunque troppi, si rivela bassissima. «’Ste cose», appunto, con la manipolazione di fatti che hanno strappato o sconvolto vite. Eventi catalogati come drammatiche normalità, ma in realtà pesanti reati. Che si scoprono tardi, il più delle volte irrimediabilmente tardi. «Possibile che serva sempre un’indagine della magistratura? Ma non ci dovrebbero pensare gli organismi di controllo? Dove erano quando accadevano questi gravissimi fatti? Cosa hanno fatto? Senza la nostra indagine questo incredibile sistema di illegalità e falsità sarebbe venuto alla luce?». Così si è sfogato, sempre con il nostro giornale, il procuratore Cafiero de Raho. Bisogna ancora aspettare le indagini giudiziarie per accendere i riflettori sulle zone oscure della nostra società e sostenere la speranza di tantissimi onesti. A Reggio come in altre città. Basterebbe citare solo le ultime inchieste in ordine di tempo: Basilicata (petrolio), Firenze (Anas), Roma (corruzione nella giustizia tributaria)... Non si tratta di una qualche illegalità "pezzente" di periferia, ma di quella da quartieri alti, delle professioni e delle imprese. Che lorda insopportabilmente anche l’immagine di professionisti seri e di imprese impeccabili. Alcune volte si incrocia con la politica, altra volte con le mafie, ma spesso fa da sola. Senza scrupoli, senza remore. È una questione di controlli e di prevenzione, perché quando arriva la magistratura è sempre tardi. Con pacata fermezza – e fuori dal coro di diversi suoi colleghi di magistratura – lo ha ricordato anche il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone: «L’idea che tutto si risolva con le manette è stata smentita dai fatti. La repressione da sola non funziona. Colpisce ex post; spesso in modo casuale; sempre quando i danni sono già fatti. La prevenzione ha tempi più lenti. Ma nei Paesi del Nord Europa, dove la corruzione è bassissima, ha funzionato».Si cura la patologia, spesso usando il bisturi, invece di prevenire la malattia con comportamenti normalmente virtuosi. C’è dunque una grande questione culturale ed educativa da affrontare. Una questione di valori, e di concreti doveri. E c’è necessità di riconoscere la gravità della malattia. Finché ci sarà qualcuno che si stupisce della lotta all’illegalità e alla disumanità non mafiosa e parla di «’ste cose» non basteranno le inchieste, pur se preziose e meritevoli. A tutti spetta una parte del gran lavoro da fare contro la corruzione, che è la tenacia (e l’indifferenza) del male. Ma proprio a tutti, nessuno escluso.
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