L’interno della chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme
Tra le fiamme degli interessi mercenari e delle violenze settarie che lacerano il Medio Oriente e hanno ridotto i cristiani di quelle terre martoriate a un piccolo gregge, la convergenza verso l’unità nella diversità sembra avere oggi un carattere: è quello che i greci chiamano ananke, il destino, la necessità. Un destino che ormai non consente più l’orgoglio delle giustapposizioni e non permette di soggiacere alla pars destruens della storia. Una necessità che è nel tempo attuale tanto più urgente e vitale da aver spinto il Vescovo di Roma a convocare a Bari sabato una giornata di «preghiera e riflessione» per la pace, con un tratto specifico: quello di un incontro esclusivo tra papa Francesco e i capi delle Chiese e delle comunità cristiane dell’area mediorientale. Fatto questo che non ha precedenti nella storia dell’ecumenismo. Per la prima volta, infatti, il Vescovo di Roma, già 'Patriarca d’Occidente' – fino al 2006, quando quel titolo antico tributato al Papa è stato soppresso da Benedetto XVI –, ha convocato un incontro di preghiera a cui sono chiamati anche tutti i patriarchi e i capi delle Chiese d’Oriente che in tempi diversi, a partire dal Concilio di Efeso, cioè dal 431 dopo Cristo, avevano vissuto la rottura della piena comunione con la Chiesa di Roma. Ora, proprio perché fondata su Pietro, la Chiesa di Roma, che «presiede nella carità» – come insegna sant’Ignazio d’Antiochia –, porta con sé la responsabilità di promuovere un dialogo nella carità con le altre Chiese che rivendicano un’origine apostolica. È a lei che spetta il compito di indicare cosa già unisce i cristiani. Da qui l’iniziativa.
«Chiese sorelle, popoli fratelli: tali dovrebbero essere il nostro esempio e il nostro messaggio» aveva auspicato più di cinquant’anni fa il patriarca ecumenico di Costantinopoli Atenagora nell’incontro a Gerusalemme con Paolo VI. «Ma forse – aveva aggiunto – tutto questo che abbiamo attraversato era necessario perché i cristiani tornassero a essere fratelli responsabili insieme del destino dell’umanità». Sono espressioni a cui fanno eco oggi quelle di papa Francesco nella recente visita a Ginevra al Consiglio ecumenico delle Chiese: «Il Signore ci chiede unità; il mondo, dilaniato da troppe divisioni che colpiscono soprattutto i più deboli, invoca unità... Camminare insieme per noi cristiani non è una strategia per far maggiormente valere il nostro peso, ma un atto di obbedienza nei riguardi del Signore e di amore nei confronti del mondo». Che dopo secoli, cristiani di diverse denominazioni si riuniscano insieme a pregare e riflettere su possibili prospettive di vita e di pace nel contesto mediorentale in cui vivono è dunque un fatto importante come segno dei tempi, e non solo da un punto di vista ecumenico. Perché la solidarietà ecumenica non riguarda solo cattolici e ortodossi, e oltrepassa gli stessi cristiani e musulmani. Perché l’ecumenismo non è fine a se stesso. Perché l’unità dei cristiani non è un 'serrate le file' motivato da ragioni ideologiche o di egemonia mondana, ma un dono di grazia implorato dallo stesso Gesù al Padre come segno di riscatto dal male, riverbero visibile di redenzione. E perciò ha come naturale orizzonte il destino di tutti.
Paolo VI si era detto «pellegrino di pace» in una regione – proprio quella del Medio Oriente – dove già nel 1964 si avvertita tutta la precarietà di un percorso di riconciliazione che sembrava un’utopia. Alla pace si era appellato Paolo VI, e alla pace si appella ora papa Francesco in particolare per questa regione dove Dio è nato, cercando al tempo stesso di rendere questa sua istanza la più ecumenica possibile nella convinzione che tutti i cristiani possono contribuirvi. La situazione in cui si trovano a vivere i cristiani in Medio Oriente è pertanto «un incentivo ecumenico non solo per loro ma anche per i cristiani di tutto il mondo», come ha affermato il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, nel presentare la riunione di sabato nella città simbolo di apertura verso l’Oriente. Non bisogna infatti dimenticare che le guerre nella regione mediorientale sono spesso alimentate e sponsorizzate da Paesi occidentali a maggioranza cristiana. Senza le armi degli occidentali e senza gli interessi geopolitici mondiali molte delle guerre in Medio Oriente non sarebbero mai nate – come è stato osservato – così come il settarismo violento non si sarebbe propagato per continuare a giustificare interventi militari e a perpetrare affari criminali.
«L'indebolimento delle comunità cristiane in Medio Oriente è cominciato con l’intervento militare Usa in Iraq nel 2003. È a partire dall’operazione Desert Storm che la Chiesa caldea ha visto diminuire drasticamente il numero dei suoi fedeli in Iraq» ha osservato il neo-cardinale iracheno Louis Raphael Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei. E non è il solo dei patriarchi in Oriente a sottolineare che la causa dell’assottigliamento della presenza dei cristiani nella regione non è da attribuire ai musulmani: «La causa è la guerra, la politica internazionale che ha inculcato una cultura settaria. Noi con i musulmani abbiamo vissuto quattordici secoli insieme senza problemi. Tanti nostri concittadini musulmani ci apprezzano. Riconoscono che la nostra presenza porta un contributo positivo e indispensabile alla coesistenza nelle nostre società, nelle forme storiche in cui questa presenza si è espressa. Per questo – afferma Sako – chi ci vuole davvero aiutare deve favorire questa simpatia nei confronti dei cristiani, e non deve separare o addirittura contrapporre i cristiani ai loro concittadini musulmani e di altre religioni».
I vescovi caldei sono stati tra i primi a chiedere al Papa di promuovere un’iniziativa come quella di domani per tutta l’area: «È necessario imparare a vivere in pace, come ha fatto l’Europa dopo la seconda guerra mondiale – spiega ancora il cardinale Sako –. Gli occidentali lo avevano capito dopo questa guerra, dobbiamo impararlo nuovamente». Per lui, come per altri patriarchi d’Oriente, oltre a promuovere il principio di cittadinanza e il rispetto dei diritti umani in questi Paesi l’incontro a Bari può servire quindi a «chiedere ai capi di Stato di pensare anche alla vita umana e non solo agli interessi del petrolio o a fabbricare e commerciare armi, che vuol dire fabbricare morte. In Europa non c’è la guerra: perché da questa parte del Mediterraneo gente innocente deve soffrire per il commercio di armi e di petrolio? Per i conflitti in Medio Oriente il punto cruciale è sempre lo stesso: bisogna realmente impegnarsi per arrivare a una pace permanente». «Il problema è sempre uno, al fondo: ci vuole la volontà politica», aveva ribadito lo stesso segretario di Stato cardinale Pietro Parolin nell’ultima sua intervista ad Avvenire. Pertanto l’unità dei cristiani nella preghiera comune e nello scambio di possibili prospettive da attuare nel contesto mediorientale, oltre a mostrarsi quale gesto profetico e responsabile, è un esempio di realismo. Un atto di realismo.