sabato 5 febbraio 2022
Così le strategie comunitarie cambieranno il modo di coltivare e allevare. Con «Farm to fork» la Pac diventa ambientalista: l’erogazione degli aiuti si lega a criteri ecologici e di territorio
La nuova politica agricola Ue vuole imprese più sostenibili

Ansa

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Alla fine di novembre il Parlamento europeo ha approvato la nuova Politica agricola comune. È l’insieme delle norme che regolano l’erogazione di aiuti pubblici alle imprese agricole dal 2023 al 2027. Si danno dei soldi alle campagne, miliardi di euro, per cambiare il modo di coltivare o allevare ciò che mangiamo. Bruxelles dice che la nuova Pac sarà più verde, più equa, più flessibile e trasparente. Effettivamente, rispetto al passato, si insiste sulla promozione della biodiversità e sul rispetto degli impegni ambientali e climatici. Inoltre, i Paesi membri dovranno destinare almeno il 35% del bilancio allo sviluppo rurale e legare almeno il 25% dei pagamenti a misure green. Aumentano anche i controlli sul lavoro nei campi. Lo stanziamento totale è di 350 miliardi: rappresenta il 30% del bilancio europeo. Meno del quadro finanziario pluriennale 2014-2020: 9,9% in meno per il primo pilastro, alimentato dal fondo Feaga, e 11,7% per il secondo, alimentato dal fondo Feasr.

Le polemiche. Malgrado i tagli, vi è chi considera vessatorio imporre ai cittadini delle imposte che, dopo un giro immenso, finiscono nelle tasche degli agricoltori, ma un Paese sovrano non ha altro modo per garantirsi un approvvigionamento alimentare che è importante, come ha dimostrato la pandemia, quando si fermano i trasporti e scatta la speculazione sulle materie prime. Un altro argomento ricorrente è che l’agricoltura non va finanziata perché inquina: eppure, i principi attivi utilizzati per diserbare sono in calo da decenni. Tuttavia, mentre la prima “chiacchiera” pare ormai superata, la seconda persiste a tal punto che questa Pac nasce con una logica punitiva, ispirata dalla strategia Farm to Fork, che postula una riduzione drastica (e irrealistica) della chimica in campo e spinge le attività agricole verso una dimensione non produttiva. La chiamano multifunzionalità: significa che l’agricoltore non ha più solo il compito di produrre cibo, ma anche servizi alla collettività, a partire dalla tutela dell’ambiente.

Di conseguenza, la Pac non è più uno strumento per produrre reddito ma per promuovere la transizione ecologica del mondo rurale e questo “snaturamento”, che secondo alcuni osservatori potrebbe risolversi addirittura nella sua mancata applicazione, discende da una mancanza d’interesse (e di conoscenza) da parte degli altri settori della società per la dimensione tecnica e produttiva dell’agricoltura, spesso considerata un “nemico” e non un produttore di beni e di reddito. Questo conflitto oggi viene sterilizzato finanziando gli agricoltori perché svolgano attività ambientali (o pseudo tali) ma riemergerà quando i cittadini si renderanno conto che, avendo seguito tesi esclusivamente politiche e non aver preteso invece maggiori controlli su questo e altri settori per prevenire l’inquinamento delle acque e dei suoli, si troveranno a pagare frutta e verdura a peso d’oro o a importarle dall’estero.

Dalla fame all’ecologia. Storicamente, la politica agricola comune nasce per allontanare lo spettro della fame da un popolo sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale. Nei decenni successivi, però, si allinea allo sviluppo dell’industria agroalimentare, subisce i tagli di Maastricht e infine perde la sua identità economica, allorché vede cambiare radicalmente il concetto stesso di sicurezza alimentare, che passa dall’autosufficienza, con il suo significato strategico e geopolitico, alla salute del consumatore, il quale diventa l’arbitro della congruità degli aiuti. Questo snaturamento si compie definitivamente con la strategia europea Farm to fork: la Pac assume un’impronta marcatamente am- bientalista che si traduce nel condizionare l’erogazione degli aiuti non soltanto al rispetto di alcuni criteri ecologici, ma alla dimostrazione che, a seguito del finanziamento di un’attività agricola, vi è stato un verificabile cambiamento ambientale nel territorio che è stato oggetto di quell’attività.

La rinazionalizzazione. Diversamente dal passato, la nuova Pac lascia però un ampio margine di scelta agli Stati membri, che possono decidere su quali attività e azioni ambientali insistere. Queste scelte sono contenute nel “piano strategico nazionale” che ridisegna i due pilastri in cui si articola la Pac: il pagamento diretto, cui hanno diritto tutte le aziende agricole che hanno determinati requisiti, e lo sviluppo rurale, cui accedono solo le imprese che si impegnano in determinate attività inserite in appositi bandi, gestiti prevalentemente dalle Regioni.

Un modello a moduli. Il nuovo modello di sostegno prevede quindi un sistema di pagamento a moduli. Alla base c’è il Sostegno al reddito di base per la sostenibilità (Biss), un pagamento disaccoppiato dalla produzione, erogato per gli ettari ammissibili a disposizione dell’agricoltore: dal 2023 subirà un robusto taglio, compensato da un sostegno redistributivo per le piccole aziende e da un aiuto per i giovani agricoltori. Ma la voce che lo integrerà maggiormente è quella degli aiuti che le imprese potranno percepire solo se si faranno carico di attuare talune pratiche agricole benefiche per il clima, l’ambiente e il benessere degli animali, inserito nei cosiddetti eco-schemi. Alcuni settori, infine, potranno ricevere ancora un sostegno accoppiato, erogato per ettaro coltivato o capo di bestiame. Fin qui il primo pilastro. Il secondo contempla dei finanziamenti – cofinanziati dagli Stati membri – erogati solo alle imprese che aderiscono a programmi finalizzati allo sviluppo delle zone rurali (Psr).

Il Piano Strategico Nazionale. Il piano italiano per l’attuazione della Pac 2023-2027 è frutto di un’intesa Governo-Regioni. Al sostegno di base al reddito per la sostenibilità (Biss) destina circa il 48% delle risorse del plafond nazionale (3,685 miliardi di euro l’anno su un totale di 34 miliardi che è stato decurtato di 6 rispetto alla vecchia Pac). Ciò significa – ecco arrivare il taglio – che in media le aziende agricole italiane nei prossimi anni percepiranno attraverso questo pagamento diretto il 45% in meno di oggi. Entro il 2026, ci sarà anche una convergenza dei “titoli” aziendali che danno diritto ai soldi, portando i primi all’85% del valore medio nazionale. Per la struttura stessa dell’agricoltura italiana, che nei settori che contano ha un et- perderanno. tarato medio-alto, una convergenza più marcata avrebbe comportato la chiusura di migliaia di imprese. Già così, 4 milioni di titoli cresceranno di valore e 700 milioni.

Gli eco-schemi. Venendo alle misure facoltative (e quindi volontarie, ma sarà importante accedervi per far tornare i conti aziendali) per il clima, l’ambiente e il benessere animale, l’Italia prevede cinque categorie di eco-schemi nazionali a cui sarà destinato a regime il 25% delle risorse: le imprese vi aderiranno dunque per fare reddito, ma in questo modo si finanzierà anche la loro transizione ecologica. Saranno accessibili solo a chi fa zootecnia, arboricoltura, olivicoltura, produzione di foraggi e coltivazioni che alimentano gli insetti impollinatori. Alcuni dei settori esclusi dagli ecoschemi, come riso e grano duro, riceveranno un congruo aiuto accoppiato. Sono previsti anche interventi settoriali e un Fondo mutualistico nazionale per le calamità. Il margine di discrezionalità lasciato da Bruxelles (che avrà come contropartita ferrei controlli) è giustificato dalle grandi differenze tra le agricolture dei diversi Paesi membri, che rendono inapplicabile un sistema di aiuti unico. Lo dimostra il caso del biologico.

Il caso bio. Dopo un’intensa discussione il governo ha deciso di sacrificare l’ecoschema per il biologico. In altre parole, la Pac non metterà risorse sul primo pilastro per questa filiera ma il risultato finale è esattamente il contrario di quel che si potrebbe pensare: il bio riceverà più soldi di quanti ne avrebbe avuti con il sistema ideato da Bruxelles, perché, trasferendo 90 milioni di euro all’anno dai pagamenti diretti allo sviluppo rurale (gestito soprattutto dalle Regioni), e aggiungendovi il cofinanziamento nazionale, si arriverà a 1.000 milioni di euro in cinque anni, da aggiungere alle risorse già stanziate nei Psr e ai fondi cui i coltivatori biologici potranno accedere attraverso gli altri eco-schemi. Se non si fosse fatto così, sacrificando l’ecoschema apparentemente più importante e concentrando le risorse su un altro canale di finanziamento, gli agricoltori biologici, poiché la Pac vieta doppioni negli aiuti, per sfruttare appieno il primo pilastro avrebbero dovuto rinunciare alle misure che oggi i Psr (secondo pilastro) destinano al loro metodo di coltivazione. Problema tecnico, dunque, e soluzione politica.

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