mercoledì 18 marzo 2015
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La disseminazione di «nuovi diritti» piantati come vessilli da un capo all’altro della nostra vita non poteva risparmiare il suo capitolo conclusivo, attorno al quale va crescendo d’intensità la campagna internazionale per sostituire alla dimensione comunitaria e condivisa della morte la sua privatizzazione, fino a relegarla nel nascondimento più assoluto. Un evento reso a tal punto individuale da diventare insindacabile: "Voglio morire, nessuno mi può fermare, lo Stato deve tutelarmi in questa scelta". E lo Stato, anziché mettere in campo ogni sforzo per scongiurare opzioni suicide, lascia fare, tirando una cortina legale dietro la quale alla collettività non è lecito ficcare il naso. Sono affari altrui, ma lo si chiama diritto.È la sostanza culturale della nuova legge francese sul "fine vita", approvata ieri sera a schiacciante maggioranza dall’Assemblea nazionale di Parigi (in prima lettura, ma la distribuzione dei poteri tra le due Camere rende il voto pressoché definitivo) modificando la legge Leonetti che 10 anni fa definì un «dovere di umanità» il sostegno alle persone colpite da malattie incurabili. Lo Stato, in sostanza, veniva richiamato al dovere di farsi carico di chi soffre senza riserve né interruzioni, sino alla fine, considerando ogni omissione come un incoraggiamento alla solitudine e alla disperazione dei più fragili. Ha tanto valore la vita, sempre, che non la si può mai considerare perduta. Ebbene, in un lasso di tempo così breve la logica solidale di quel provvedimento è stata sovvertita – per mano dello stesso firmatario, neogollista, oggi insieme al socialista Alain Claeys – spingendo la comunità sulla via del disinteresse verso chi decide di farla finita quando la medicina non lascia più ragionevoli speranze di guarigione. Nell’ordinamento francese non viene introdotto un solo nuovo diritto, ma addirittura due: perché insieme al «diritto all’autonomia», garantito dal testamento biologico al quale si affidano le proprie volontà di fine vita cui i medici saranno tenuti a conformarsi come semplici esecutori materiali, viene riconosciuto anche il «diritto alla morte degna», un concetto fumoso e inquietante la cui definizione è svincolata dal dato di realtà (la dignità oggettiva di ogni vita umana) e lasciata alla libera decisione del singolo paziente o di chi gli sta attorno. È lo spirito dei tempi, si dirà, ma è anche la resa burocratica alla solitudine e all’abbandono, nel nome dei diritti e delle libertà, beninteso. Lo strumento per dar corpo a questo duplice proclama di autodeterminazione senza alcun contrappeso è un terzo diritto riconosciuto dalla nuova legge, inevitabile figlio dei primi due: il «diritto alla sedazione profonda e continua fino al decesso», la spinta farmacologica che accelera in modo incontrollato la fine con quella che è difficile non riconoscere come una forma di morte procurata. Una pratica che, nella sua stessa natura e per le premesse che la giustificano, crea uno spazio fuori da ogni controllo nel quale la vita è una variabile e non più un assoluto. Con questo provvedimento veniamo introdotti in una «zona grigia», com’è stata definita, dove grava una pesante coltre di nebbia etica, sprigionata da un assoluto relativismo: ognuno è legge a se stesso, e la comunità deve fare un passo indietro perché non le compete alcuna parola significativa sulla vita dei cittadini. Alla luce delle nuove regole, lo «scarto» della vita giunta all’ultimo tornante diventa in Francia un’eventualità tutt’altro che secondaria, visto che è stata deliberatamente squarciata la rete sociale, giuridica, medica e morale che sino a ieri proteggeva la vita umana giudicata «degna» in quanto vita. Privato di questa garanzia assoluta, l’uomo vale sinché funziona e quando si ammala in modo irreversibile se ne considera possibile la fine anticipata per «sedazione», con scenari non troppo remoti di repulisti sbrigativi dettati da esigenze di bilancio. Si dà forma così all’ideale del «morire addormentati», com’è stato definito, una forma di eutanasia alla quale è stato solo cambiato il nome. Indicando questa come soluzione per i pazienti terminali, o ritenuti ormai non più recuperabili, si assesta anche una mazzata dura, e forse irrimediabile alle cure palliative, cioè al percorso di autentica umanizzazione del fine vita che costituisce oggi la vera alternativa all’eutanasia e che a Parigi non è stato ancora riconosciuto come «diritto», quasi fosse un lusso o una pretesa. È stata così compiuta una scelta precisa, e la strada appare già tracciata: nell’architettura di questa legge, che qualcuno di qua dalle Alpi ha già iniziato a proporre come modello, è evidentemente implicito il suo superamento. Con criteri di riferimento tanto vaghi, l’eutanasia attiva è dietro l’angolo, e nessuno potrà fermarla. Lo stesso premier Manuel Valls, insieme al ministro della Salute Marisol Touraine, hanno fatto intendere che si tratta di un passaggio intermedio verso nuovi «diritti». O, piuttosto, per abituarci a una spietata indifferenza.
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