domenica 17 luglio 2016
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I duri tempi che stiamo vivendo: Dacca, Andria, Nizza, Istanbul... Ma che tempi stiamo vivendo? Ce lo siamo chiesti l’altra sera, con quattro-cinque amici quando nel bel mezzo di una riunione di lavoro uno di noi ha letto sul suo smartphone (il mondo in un taschino) del tentato golpe in Turchia. Il risultato è stato paradossale: un minuto di stupore, incredulità, scoraggiamento, ma poi in breve tutto è passato in secondo piano, perché non c’è mai tempo per fermarsi un attimo, e poi la terza notizia tragica in pochi giorni sembrava quasi aver perso da sola la propria forza d’urto. Dacca, Andria, Nizza, Istanbul... Assuefazione, alla fine forse è questo l’effetto: la fatica di elaborare reazioni che non siano istantanee.

 

Siamo storditi prima ancora che spaventati, frantumati nelle nostre certezze in modo così dirompente che non possiamo sostenere questa demolizione. E allora facciamo appello alla nostra resilienza, come quelle facce di gomma che si spiaccicano se le lanci per terra ma poi in un secondo riconquistano la loro forma precedente. La rimozione a questo punto non è nemmeno forzata, ma naturale: ci si scrolla di dosso la scossa ricevuta e si va avanti senza pensarci. Mio figlio da piccolo – avrà avuto sei-sette anni – una sera mi chiese mentre guardavamo il telegiornale: "Ma papa", come fa a ridere quella signora dopo aver dato notizie come quelle? Dovrebbe piangere!'. In effetti la speaker del tg aveva dato pochi attimi prima una notizia catastrofica (non ricordo quale sciagura naturale, il numero dei morti era così alto da essere paradossalmente 'insignificante'), e già si accingeva a mandare in onda un servizio sulle tendenze dell’estate con un sorriso a trentadue denti. Diedi ragione a mio figlio: c’era da sospendere ogni altra notizia e mettersi a piangere.

 

Se però non c’è più alcun effetto, non c’è alcun affetto. Il vero dramma della risonanza prodotta dai mass media è l’appiattimento, l’omologazione, l’incapacità a distinguere. La Bibbia invece ci ricorda fin dalla prima pagina (con Dio che crea distinguendo) che distinguere è qualcosa di vitale mentre separare e contrapporre è mortale. Allora forse la risposta è rimanere critici di fronte al diluvio di emozioni e al tempo stesso solidali con i nostri simili, perché ognuna delle vittime di Nizza o di Dacca, in Puglia o in Turchia potremmo essere noi, siamo noi. Come si fa a mantenersi umani sotto questo bombardamento di emozioni e di tragedie che ci assediano sempre più da vicino con un ritmo davvero infernale? Mi viene in mente quell’indemoniato di Gerasa che il Vangelo di Marco ci dice talmente invaso dal male da rispondere a Gesù «il mio nome è legione, perché siamo tanti».

 

Siamo strappati da più parti, il nostro 'tessuto' non regge più. Per quel giovane è solo l’incontro con Cristo, con l’Altro, che lo libera e lo riconduce a unità. L’unità, questo poi alla fine conta: noi siamo uno, e uno dobbiamo rimanere. Questo lo sa anche il nemico, quello con la N maiuscola, come osserva acutamente Clive S.Lewis nel famoso epistolario di Berlicche scritto mentre Londra negli anni 40 del Novecento resisteva sotto i bombardamenti: al diavolo non importa tanto che ci sia la guerra mondiale, se non quando questa guerra incide in qualche modo con la dannazione di una sola persona, di una sola anima. Dovremmo ricordacelo: questi sono i tempi che stiamo vivendo, e non da oggi, tempi che mettono a rischio non soltanto il mondo intero ma prima ancora quel 'mondo' che alberga nel cuore di ogni singola persona umana.

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