La guerra è anche stupro infine l’Onu riesce a dirlo
giovedì 25 aprile 2019

Lo stupro come strumento militare. L’abuso sessuale come strategia geopolitica per affermare supremazia e stroncare ogni velleità di resistenza del nemico, o per portare fino alla fine una pulizia etnica iniziata con le armi. La violenza sessuale è sempre stata talmente associata alla guerra che per secoli è stata oggetto di quella tolleranza riservata alla fatalità, all’inevitabile. Dall’Iliade, che si apre con Achille adirato contro Agamennone per la sottrazione della sua 'schiava' preferita, allo stupro sistematico e organizzato del conflitto serbo-bosniaco degli anni Novanta, fino all’incessante rapimento di ragazze da parte di Boko Haram nell’Africa occidentale e alla tragedia di interi villaggi di donne yazide, catturate, schiavizzate e brutalizzate dal Daesh, nella storia dei conflitti e della ricostruzione post-bellica emerge con ostinazione una vera e propria ambiguità nell’interpretazione dello stupro, visto troppo a lungo come male necessario, per motivare le truppe, terrorizzare il nemico o sradicare un gruppo etnico.

Ancora oggi, in tempo di guerra le donne tornano a essere usate come oggetti anche in quelle società che, in tempo di pace, sembravano aver superato una visione strumentale del corpo femminile. Per questo è importante ogni passo che la comunità internazionale compie per affermare, unita, che lo stupro durante o dopo un conflitto va identificato e punito come un crimine di guerra, che le sue vittime hanno il diritto di essere soccorse e ascoltate e che i colpevoli devono essere portati davanti alla giustizia.

Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha fatto uno di questi passi, lunedì notte, quando, dopo aver messo da parte l’uso ambiguo di una terminologia legata a vaghi «diritti riproduttivi», ha approvato una risoluzione che impone sanzioni mirate a coloro che utilizzano la violenza sessuale in tutte le circostanze legate a un conflitto e si assicura che le voci delle vittime siano al centro della risposta, stabilendo un approccio inclusivo e incentrato sui sopravvissuti. La comunità internazionale ha fatto molta strada dal processo di Norimberga, dove nessun imputato fu condannato per stupro, al 1996 quando gli stupri vennero definiti crimine di guerra.

E ancora dal 2001, quando avanti al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia per la prima volta venne indagata l’aggressione sessuale come crimine contro l’umanità. E ha continuato a farne dal 2016, quando, per la prima volta, la Corte penale internazionale condannò qualcuno per reati sessuali, con la sentenza a carico dell’ex vicepresidente della Repubblica Democratica del Congo, Jean-Pierre Bemba, a 18 anni di carcere per gli abusi commessi dalle sue truppe nella Repubblica Centrafricana. Ma anche dopo aver posto quella pietra miliare restano pochi i Paesi che sono riusciti a creare dei centri dove le donne possono parlare di ciò che è accaduto loro e chiedere giustizia, senza vergognarsi o sentirsi in qualche maniera 'colpevoli'. Ed è inaccettabile che nei periodi dopo le guerre vengano ancora intentate più azioni legali per il danno alle proprietà culturali che per la distruzione dei corpi (e delle anime) delle donne.

La risoluzione – numero 2467 – avanza dunque per la prima volta richieste specifiche di maggiore sostegno per i bambini nati a seguito di stupro nel corso di un conflitto (un tema caldeggiato con forza dalla Santa Sede), così come per le loro madri, che rischiano di affrontare una vita di umiliazioni e vergogna. La misura è la nona presentata dal Consiglio di sicurezza per affrontare le specifiche esperienze di guerra delle donne e sostenere il loro coinvolgimento nei negoziati di pace e nella ricostruzione postbellica.

Ma il cammino nella direzione dello sradicamento di ogni ambiguità nei confronti dell’uso dello stupro come strumento militare è ancora troppo ridotto rispetto ai secoli di storia che l’hanno preceduto. Resta da fare altra strada. «Penso che questa risoluzione sia un passo nella giusta direzione – ha detto Nadia Murad, la donna yazida Nobel per la pace che ha partecipato al dibattito al Palazzo di vetro –. Ma l’adozione di questa risoluzione deve essere seguita da passi concreti per raggiungere la realtà».

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