mercoledì 19 luglio 2017
Risorse e diplomazia: la nuova guerra fredda di Berlino. I programmi tedeschi nello scenario europeo
La Germania scalda i motori della difesa comune
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L’esercito tedesco torna a pensare in grande. La sua visione continua ad essere più sub-regionale che globale, tuttavia oggi rivela una consapevolezza maggiore circa il proprio ruolo, galvanizzata dal disimpegno euro-americano dell’era Trump e dal disincanto nei confronti della Russia. I toni tedeschi sono diventati più decisi, perché la Crimea e l’Ucraina hanno tracciato un solco profondo. E la crisi non è ancora superata, considerato che nella regione contesa del Donbass si continua a combattere e a morire, a dispetto degli accordi di Minsk e dell’ennesima tregua. La cancelliera Merkel è stata molto franca: quando dal ministero degli Esteri di Mosca le è stata ventilata l’ipotesi di una nuova architettura di sicurezza europea «da Lisbona a Vladivostok», i tedeschi hanno tagliato corto: «Non avalleremo nessuna nuova formula difensiva», hanno risposto ribadendo che la sicurezza europea dovrà fondarsi «sul rispetto delle regole e dei principi» già vigenti.

Berlino, insomma, guarda all’Europa-potenza con spirito finalmente volitivo. E c’è una congiunzione favorevole nella trilaterale italo-franco-tedesca di ministri della Difesa che parlano una stessa lingua europeista, ma si scontrano su visioni non ancora coincidenti del disegno d’Europa. La Germania nel nuovo scenario ha tutto per diventare il pilastro europeo numero uno della Nato, non sostitutivo ad essa ma autonomo. Berlino ha un’enorme riserva di bilancio e i suoi aneliti multinazionali potrebbero permetterle un’ascesa rapida nelle poste di bilancio, con un occhio all’Europa e un altro all’agognato seggio permanente al consiglio di sicurezza dell’Onu. Per questo sta tornando a investire nelle forze armate. Se il programma sarà rispettato, nel 2018 la Germania destinerà alla difesa l’1,23% del Pil, trend in aumento ma che non farà comunque raggiungere entro il 2024 l’obiettivo del 2% fissato dalla Nato. Sempre che i tedeschi e i loro vicini lo desiderino realmente, perché in quel caso la Germania spenderebbe per le forze armate 60 miliardi di euro l’anno, staccando nettamente Francia, Italia, Spagna (e Regno Unito).

La sicurezza europea è anche un affare di pesi e contrappesi. Il tema è stato al centro dell’importantissimo vertice franco-tedesco del 13 luglio, in cui si è parlato nuovamente di immigrazione, politica estera e lavoro. I due Paesi stanno stringendo i ranghi, a partire dalla nuova alleanza per il Sahel. Puntano a lanciare un aereo da combattimento comune per il 2035-2040, insieme a un’unità per il trasporto tattico. E programmano una miriade di attività congiunte, dai droni ai satelliti. Ma hanno concezioni antitetiche sull’uso della vis militare, a partire dalla catena di comando, che è di tipo presidenziale in Francia e parlamentare in Germania. Parigi ha un fortissimo afflato militarinterventista, Berlino propende invece per la diplomazia e gli aiuti allo sviluppo, ai quali destina 24 miliardi di euro l’anno, contro i 9 della Francia (0,7% del Pil contro lo 0,38%). Come i due Grandi possano rilanciare un’Europa della difesa omogenea e fluida non è affatto evidente. Intanto, la Germania dovrà approvare entro l’estate una direttiva di indirizzo sulle forze armate. Un piano da 130 e passa miliardi di euro.

La Frankfurter Allgemeine Zeitung ne ha dettagliato i contorni e i contenuti, in parte dirompenti. «Entro quindici anni l’esercito tornerà ad avere la stessa struttura organizzativa» che aveva in piena guerra fredda. Si parla di costituire tre divisioni blindo-corazzate da 60mila uomini, con tanto di carri e blindati sempre più pesanti, secondo una linea di tendenza minacciosa che è comune all’Europa occidentale, agli Stati Uniti e alla Russia. Mosca sta infatti introducendo una gamma di mezzi rivoluzionari rispetto alla sua tradizione storicamente più 'leggera'. La cosa non è sfuggita ai tedeschi, che stanno pianificando un nuovo carro d’assalto in cooperazione con la Francia, e stanno stringendo patti difensivi nella Mitteleuropa. Berlino sta moltiplicando le cooperazioni europee bilaterali e multilaterali. Mentre scriviamo, la Marina tedesca può già servirsi di una nuova mega-nave olandese e sta lavorando in maniera sempre più sinergica con la flotta sottomarina e le truppe paracadutiste dell’Aja. La Germania attrae: incominciano a gravitare nella sua orbita anche la Norvegia, la Finlandia e la Polonia. La Romania e la Repubblica Ceca si accodano, segno che al centro-nord si stanno coalizzando Paesi sempre meno propensi a proiettarsi oltremare, e ormai protesi verso una difesa nazional-territoriale robusta, settore in cui l’Ue non potrà mai competere con la Nato.

La difesa territoriale sta molto a cuore ai tedeschi, che l’hanno rilanciata con un documento d’indirizzo a marzo 2017. Quanto il governo Merkel possa spingere sul pedale dell’acceleratore è dubbio, soprattutto in tempi elettorali. L’opposizione politica è scatenata contro l’ipotesi di sacrificare sull’altare della difesa troppi denari, a discapito dell’istruzione, dell’ambiente e del welfare. Bisogna tutelare anche quel milione di migranti cui Berlino ha offerto asilo. Nel contesto post-Brexit, che ha tolto alibi ai temporeggiatori dell’Unione della Difesa, la Germania deve fare i conti anche con una quota aggiuntiva al bilancio comunitario attorno ai 4,5 miliardi di euro in più all’anno. Chi sostiene che le cooperazioni di difesa permettano economie tout-court parte già col piede sbagliato. Il vero problema dell’integrazione europea è il dilemma fra la sovranità nazionale e la maggiore potenza nello stare insieme. Ma bisogna avere il coraggio di unificare dottrine e concetti operativi e di valicare alcuni tabù ancestrali, condividendo i rischi anche in operazioni in cui gli interessi vitali del proprio cortile di casa non siano in gioco. Per ora il respiro è stato corto. Come lo è ancora quello del mini-quartier generale europeo, più una Direzione che altro, tant’è che l’operazione Atalanta continua ad esser pilotata da Northwood e non da Bruxelles. Un vento nuovo sembra essersi levato il 22 giugno, quando al Consiglio europeo sono state lanciate per la prima volta 'politicamente' le Cooperazioni Strutturate Permanenti, che i tedeschi vorrebbero ampie il più possibile e i francesi capeggiare.

Chi sarà della partita, aderendo a questi strumenti giuridici vincolanti e irreversibili? Per ora si stanno delineando quattro poli che potrebbero alla lunga confliggere. C’è quello Mitteleuropeo filo-tedesco, vero hub di gravitazione europea; quello nordico intorno alla Polonia, a cavallo fra i due; quello franco-britannico di Lancaster House, in parte deludente; e quello mediterraneo, spesso marginale. Guarda caso coincidono con i quattro pilastri dell’armamento e della difesa europei (85% del tutto), che fra loro sono molto segmentati e molto nazionalisti. Germania e Paesi satelliti hanno interessi specifici, la Polonia guarda troppo oltreatlantico e gli anglo-francesi si piccano ancora del trio strategico aero-navale con gli Usa, sorta di conventio ad excludendum, che taglia fuori italiani e spagnoli. Gli americani staccano tutti: con la Terza Strategia di 'Compensazione' minacciano di declassare le ambizioni industriali europee sui mercati delle alte tecnologie militari. L’hanno già fatto con il caccia F-35 e molto altro. Un’accelerazione che potrebbe mettere a rischio la stessa capacità di operare insieme. Ecco perché il recentissimo Fondo europeo per la difesa, con i suoi 1,5 miliardi annui dal 2021, cerca di ristabilire gli equilibri. Così come il nuovo piano per la difesa comune, proposto da una Commissione europea rianimata dal duo Juncker-Mogherini.

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